Nell’universo contemporaneo esistono forme d’arte di grande chiusura. Spesso questa indisponibilità alla comprensione è voluta, e non racchiude nulla, se non un vuoto di maniera. Fortunatamente la sindrome della vacuità è riconoscibile a pelle, grazie alle brutte sensazioni che lascia. Prima fra tutte l’irritazione. Altre volte però, la difficoltà di decrittazione del codice di un’opera d’arte nasconde qualcosa di misterioso.
E allora ci attira, ci parla in una lingua sconosciuta, ci gira intorno come un fluido elettrico. Ci sfida e ci affascina, e noi dobbiamo capire. È lo stesso identico meccanismo che si instaura nei confronti di un oggetto d’amore, o durante una caccia al tesoro per enigmi. Perché gli oggetti d’amore sono contraddittori, e gli indovinelli procedono per paradossi.
Il primo paradosso di Andrea Paganini è lo stile: da un grafico di professione ci si aspetterebbe un’arte pulita, lineare e figurativa. Ma per Paganini questa è l’eccezione, con cui ritrae unicamente il figlio Dario in un delicato tre quarti. La sua regola è piuttosto il caos, la sporcatura, l’assenza di struttura. L’informe.Paganini usa bitume, cenere, olio di lino, caolino, ruggine, fuoco. La materia allo stato primario, sovrapposta, graffiata, miscelata in una gamma di colori ed impressioni fra l’organico e l’aleatorio.Un copertone diventa l’aureola di una Madonna che sembra un busto votivo di 10.000 anni fa, o forse la Falsa Maria, il robot-femmina creato dal mad doctor di Metropolis. Una tela da casaro si trasforma nella rete che ci separa da un cerchio rosso in rilievo, che potrebbe essere il sole, il nucleo di una cellula, oppure l’idea astratta di dio. L’ultima serie di Paganini si distingue per l’impiego del bianco. Spesso accostato o mischiato col nero, in campiture dense e zigrinate. Raggrumato a ditate in forma di teschio. Oppure in grandi tele graffite, recuperate letteralmente da sotto i piedi dell’artista, dai teloni per non sporcare a terra. Questo frammento in particolare sembra provenire da un esterno, potrebbe essere un pannello esposto alle intemperie per anni. Spesso le opere di Paganini danno quest’impressione, di non essere create dalla mano dell’uomo, ma dall’intervento del caso e dal corso degli eventi. Sono emblema del tempo, che rovina, fa dimenticare, insabbia. Il tempo cambia ogni cosa, e contro quest’azione devastatrice l’unico scudo è la memoria. Quella che fissa ricordi di estati africane, in cui una barca a remi diventa un grosso animale insettiforme dentro un bosco di colate nere, con intorno lo splendore bianco della calura. Oppure ricordi buffi di gatti neri, talmente recidivi nella cleptomania della pappa altrui da meritarsi un quadro. Il ricordo di La bestia di Borowczyk, visione traumatica sulle soglie dell’adolescenza, da esorcizzare impiegando il nastro del vhs come supporto per dipingere il nero del disappunto, coronato da schizzate di bianco.
Paganini cifra le sue memorie con un’economia di elementi che diventa crittogramma blindato, inespugnabile senza il suo intervento. Comunica con un segno primitivo, spoglio, oscuro. Fra la materia amorfa affiorano simboli ricorrenti. Il segno verticale, spesso bruno, come sangue secco. Una lacerazione, quindi, a volte con punti di sutura. Una ferita che si trasforma in una porta per andare da un’altra parte.
Poi una forma dalle linee tonde, raccolte, biologiche. Un fagiolino, oppure un feto. O anche una testa stilizzata. A volte priva di lineamenti, a volte nell’atto di urlare. Più o meno netta. La più netta di tutte è quella di 4717, un fantasma dentro ad un sogno, la visitazione di un morto del proprio sangue. Che ritorna, parla, e fa piccoli regali.
E poi si trasforma nella fotografia di un sommozzatore. Ovvero di chi va molto al di sotto della superficie, in un mondo silenzioso, scuro, alla ricerca di qualcosa che pochi possono avere la capacità di cercare.Qualcosa al di là delle apparenze, delle forme transeunti, delle nette separazioni. Qualcosa di indicibile.
Pubblicato il 12 giugno 2009 su SuccoAcido