Continua a Modena la consuetudine di dedicare grandi mostre fotografiche a realtà culturali incognite. Se l’anno scorso è toccato all’Estremo Oriente, con la memorabile Asian Dub Photography, quest’anno è la volta dell’Europa dell’Est.
Storia Memoria Identità si avvale dell’evidenza ontologica del medium fotografico per mostrarci il Grande Altro dell’ex blocco sovietico, nel suo lunghissimo processo di trasformazione che tutt’ora, dopo vent’anni, risulta incompiuto. Nonostante le influenze del consumismo, l’Europa dell’Est continua ad essere una terra stupefacente, fatta di fabbriche grosse come cattedrali, boschi da timor panico e conglomerati abitativi enormi e squadrati. Una terra fuori dal tempo, sospesa fra un futuro ucronico, e un qualche nostro nebuloso passato. In cui è ancora viva la memoria del pugno di ferro del potere. Sull’incanto dei grandi spazi naturali lavora Jitka Hanzlovà (Repubblica Ceca, 1958), con boschi da fiaba campionati in particolari: amanite muscarie, file indiane di cinghiali, prati di velluto ed alberi enormi visti dal basso, che svelano misteriose simmetrie a frattale di verde e nero.
Ondàk dedica uno scatto iperreale ad una polla d’acqua in mezzo a un prato, che focalizza ogni singola foglia e fiore, con un risultato a metà strada fra le cesellature da orefice di Botticelli e la sensibilità per la natura degli Impressionisti.Paesaggi di erbe bagnate dalla rugiada, strade fangose e palizzate di legno per Marika Asatiani (nata a Tiflis), che fanno da sfondo ad una ricerca sulle donne della terre di confine della Georgia, con i loro occhi grandi, i fianchi generosi, e l’hijab islamico.Anastasia Khoroshilova (Mosca, classe 1978, formazione a Berlino), espande questa tipologia di indagine antropologica a tutta la Russia, e realizza scatti di cavalieri e amazzoni regali come monumenti equestri, in mezzo a praterie verdi o distese di neve.Aleksander Petlura, “il più grande collezionista di rifiuti della storia dell’arte russa”, direttamente dalla tormentatissima scena alternativa moscovita, assembla gruppi di figure di stampo seicentesco, rutilanti come un film di Kusturica: soldati, donne a lutto con teschi in mano, traffichini in doppiopetto, pazzi in vestaglia, uomini e donne in sgargianti costumi tradizionali. Vari artisti dedicano la loro ricerca alle dinamiche del potere. Da una parte il suo fantasma: ragazzini col cellulare che sorridono da sopra le vestigia della statua di Lenin, nei collage vertiginosi del rumeno Iosif Kiràly.
Oppure gli animali fantastici fusi dalla statua di Stalin dopo il rapporto Kruscev, fotografati dalla ceca Swetlana Heger in una cornice di alberi neri e spogli che ricordano i cimiteri di Turner.
Zbigniew Libera (Polonia, 1959) utilizza i Lego per riprendere l’iconografia dei campi di sterminio: Lego grigi per camini crematori e muraglie di filo elettrificato, mucchi di piccole braccia colorate, scheletri come internati e poliziotti in tenuta antisommossa come aguzzini.
Il potere è una minaccia reale. Milica Tomic (1960, Belgrado) dice il suo nome in sessanta lingue diverse, attribuendosi ogni volta la nazionalità della lingua parlata. Nel frattempo il suo corpo, posto su un piedistallo, viene progressivamente macellato da frustate invisibili.Maja Bajevic viene inquadrata in primo piano mentre guarda in macchina; nel frattempo una voce maschile le chiede “How do you want to be governed?”, e un braccio entra nell’inquadratura per minacciarla, sfotterla, schiaffeggiarla, tirarle i capelli e le orecchie.Il gruppo Irwin, memore degli insegnamenti di Slavoj Zizek, riprende l’estetica militare per mettere alla berlina le retoriche della forza e dell’ordine, mimetizzandosi con essa. Altri artisti ancora lavorano sulle ibridazioni fra Est e Ovest. Konrad Pustola, reduce dalla scuola di Lodz, propone un reportage sulle dark room della cattolica Polonia, fotografate in panoramica dopo l’orario di chiusura.
Andreas Fogarasi realizza un corto sulle ex Case della Cultura, che dopo la caduta del comunismo si sono spesso trasformate in centri sociali. Chisa e Tkàcovà filmano una grossa massaia che fa uno striptease sullo sfondo di un poster ambientale che riproduce una foresta di latifoglie. Pur sfidando il ridicolo per cercare di emulare le lapdancers, la signora, con le sue forme tonde e sode, ricorda una Venere paleolitica.
L’albanese Adrian Paci rappresenta il ponte spezzato tra le culture, nel suo celebre scatto Centro di permanenza temporanea: la scaletta di un aeroplano, mollata nella zona di manovra di un aeroporto, si affolla di persone in attesa, dallo sguardo rivolto in avanti.
Pubblicato su Il Manifesto il 27 febbraio 2010 download pdf manifesto