Linee sottili come fili di ragno, scene silvestri, insetti e driadi senza volto. Tamara Ferioli mette in scena un mondo fluttuante di creature alate, piume alla deriva, semi dalle ali membranose. Segni curvilinei, come in una stampa di Beardsley. L’anelito ad abbandonare la gravità terrestre, a diventare leggeri e sfuggenti, è suggerito dal titolo della personale. I Mekanema sono infatti dei dispositivi di volo concepiti dal filosofo Carlo Michelstaedter.
Il candore della carta di riso giapponese usata come supporto è parte integrante del significato di questo nuovo ciclo. Il bianco simboleggia la purezza solo ad un livello superficiale. In realtà indica uno stato liminare, sospeso fra due momenti dell’essere. È il colore che si indossa nei rituali di passaggio. Questo biancore brulica di piccoli esseri: libellule, simbolo di illusione e cambiamento; efemere, la cui vita dura un solo giorno; meduse galleggianti nell’aria, belle quanto pericolose; termiti che portano la distruzione. Predazione, fragilità, caducità, bellezza, questi i significati portati dagli insetti, generalmente simbolo delle anime dei morti, e quindi di un altro piano di realtà.
Ferioli mette in scena culti panici.
Ninfe che baciano alberi, donne vaganti in un contesto naturale cesellato come un gioiello del Quattrocento, pieno di particolari perturbanti.
Shadow of a Doubt: le creature dei boschi si curvano verso la terra, come a divorare qualcosa nascosto da un nugolo di insetti.
Pearl Necklace, le driadi si arrampicano le une sulle altre per raggiungere un favo di miele, le loro natiche allineate come gemme di una collana, in una piramide che ricorda le scene di fustigazione nell’edizione settecentesca delle novelle di De Sade.
Gli esseri silvestri di Ferioli hanno corpi magri, pre-adolescenti nell’aspetto ma atteggiati in modo da costituire un richiamo sessuale. Voltati, inarcati, inginocchiati, con le mani infilate in mezzo alle gambe, strette intorno ai seni, nell’atto di espellere sciami di piccole uova dai genitali. Creature perfette per il sesso, proprio perché prive di identità, senza alcuna connotazione a livello di lineamenti.
I loro volti sono sostituiti da grovigli di capelli, veri, incollati sulla carta intelaiata. Capelli rossi, come quelli delle streghe. Questo elemento proietta le ninfe in un orizzonte demoniaco. I capelli che nascondono i la fisionomia del volto le accomunano all’icona horror Samara, la bambina infernale del ciclo cinematografico iconoclasta di The Ring.
Secondo la trattatistica medievale, i grumi di capelli rigurgitati costituiscono un chiaro sintomo di possessione diabolica. E, una volta finito il Medioevo, i deliri sonnambolici di possessione vengono chiamati con altri nomi, fra cui schizofrenia e isteria. L’isteria nasce come patologia esclusivamente femminile. Nella sua analisi iconologica dell’arte vittoriana, Bram Dijkstra afferma che fra i topoi più ricorrenti c’erano appunto quello della menade isterica, impegnata in giochi e danze sfrenate (Tabula Rasa), quello della ninfa dal dorso spezzato, nuda e invitante in mezzo ai fiori (Shadowless), quello della donna languente, ai limiti estremi della morte e della passività (Pity Me).
L’arte simbolista abbondava di figure femminili spesso ambigue, solitarie o in coppia, animate da appetiti inconfessabili. A livello ideologico, durante l’Ottocento questo tipo di tassonomia figurativa era funzionale alla stigmatizzazione della donna e delle sue pulsioni. Tamara Ferioli restituisce gli stessi stilemi iconici ad una dimensione liberatoria, in cui sesso, malia, pericolo e morte si possono fondere senza alcun senso di colpa, ed annegare in un mare bianco.
Più incorporeo ed intimista il discorso intorno ai micro-mondi sotto vetro delle boule. Stesse cromie lattescenti, per frame di memoria affidati a piccoli feticci che vanno a comporre minuscoli paesaggi di fiaba, incapsulati per opporsi all’usura del tempo. Foglie bianche appuntate con aghi da entomologo sopra ad uno strato di sabbia. Fiori lanuginosi che avvolgono come bambagia una casetta, un guscio vuoto, un frammento di alveare, a ricordo della dolcezza e della protezione dell’infanzia. In Virgin Bed coniglietti bianchi si assiepano intorno a un letto ai piedi del quale c’è un grappolo di frutti rossi. E in Walking to the End il guscio di una chiocciola si trasforma definitivamente in una casa, verso la quale si dirige una fila di formiche. Il simbolismo della chiocciola è il fulcro dell’installazione ambientale presentata allo Studio Cannaviello: una scala spiraliforme come la sezione aurea, ricoperta di una miriade di gusci di lumaca dipinti di bianco, che invita tutti coloro che volessero salire la scala della perfezione a distruggere i carapaci delle piccole creature. Perché innocenza e crudeltà sono le due antinomie alla base dell’universo di Tamara Ferioli.
Pubblicato sul catalogo della mostra Mekanema di Tamara Ferioli, inaugurazione 10 maggio 2010 presso Studio Cannaviello
Recensione di Mekanema, personale di Tamara Ferioli allo Studio Cannaviello, dal 10 giugno al 16 settembre 2010.
Linee sottili come fili di ragno, scene silvestri, insetti e driadi senza volto. Tamara Ferioli mette in scena un mondo fluttuante di creature alate, piume alla deriva, semi dalle ali membranose. Segni curvilinei, come in una stampa di Beardsley. L’anelito ad abbandonare la gravità terrestre, a diventare leggeri e sfuggenti, è suggerito dal titolo della personale. I Mekanema sono infatti dei dispositivi di volo concepiti dal filosofo Carlo Michelstaedter.
Il candore della carta di riso giapponese usata come supporto è parte integrante del significato di questo nuovo ciclo. Il bianco simboleggia la purezza solo ad un livello superficiale. In realtà indica uno stato liminare, sospeso fra due momenti dell’essere. È il colore che si indossa nei rituali di passaggio. Questo biancore brulica di piccoli esseri: libellule, simbolo di illusione e cambiamento; efemere, la cui vita dura un solo giorno; meduse galleggianti nell’aria, belle quanto pericolose; termiti che portano la distruzione. Predazione, fragilità, caducità, bellezza, questi i significati portati dagli insetti, generalmente simbolo delle anime dei morti, e quindi di un altro piano di realtà.
Ferioli mette in scena culti panici.
Ninfe che baciano alberi, donne vaganti in un contesto naturale cesellato come un gioiello del Quattrocento, pieno di particolari perturbanti.
Shadow of a Doubt: le creature dei boschi si curvano verso la terra, come a divorare qualcosa nascosto da un nugolo di insetti.
Pearl Necklace, le driadi si arrampicano le une sulle altre per raggiungere un favo di miele, le loro natiche allineate come gemme di una collana, in una piramide che ricorda le scene di fustigazione nell’edizione settecentesca delle novelle di De Sade.
Gli esseri silvestri di Ferioli hanno corpi magri, pre-adolescenti nell’aspetto ma atteggiati in modo da costituire un richiamo sessuale. Voltati, inarcati, inginocchiati, con le mani infilate in mezzo alle gambe, strette intorno ai seni, nell’atto di espellere sciami di piccole uova dai genitali. Creature perfette per il sesso, proprio perché prive di identità, senza alcuna connotazione a livello di lineamenti.
I loro volti sono sostituiti da grovigli di capelli, veri, incollati sulla carta intelaiata. Capelli rossi, come quelli delle streghe. Questo elemento proietta le ninfe in un orizzonte demoniaco. I capelli che nascondono i la fisionomia del volto le accomunano all’icona horror Samara, la bambina infernale del ciclo cinematografico iconoclasta di The Ring. Secondo la trattatistica medievale, i grumi di capelli rigurgitati costituiscono un chiaro sintomo di possessione diabolica. E, una volta finito il Medioevo, i deliri sonnambolici di possessione vengono chiamati con altri nomi, fra cui schizofrenia e isteria. L’isteria nasce come patologia esclusivamente femminile. Nella sua analisi iconologica dell’arte vittoriana, Bram Dijkstra afferma che fra i topoi più ricorrenti c’erano appunto quello della menade isterica, impegnata in giochi e danze sfrenate (Tabula Rasa), quello della ninfa dal dorso spezzato, nuda e invitante in mezzo ai fiori (Shadowless), quello della donna languente, ai limiti estremi della morte e della passività (Pity Me). L’arte simbolista abbondava di figure femminili spesso ambigue, solitarie o in coppia, animate da appetiti inconfessabili. A livello ideologico, durante l’Ottocento questo tipo di tassonomia figurativa era funzionale alla stigmatizzazione della donna e delle sue pulsioni. Tamara Ferioli restituisce gli stessi stilemi iconici ad una dimensione liberatoria, in cui sesso, malia, pericolo e morte si possono fondere senza alcun senso di colpa, ed annegare in un mare bianco.
Più incorporeo ed intimista il discorso intorno ai micro-mondi sotto vetro delle boule. Stesse cromie lattescenti, per frame di memoria affidati a piccoli feticci che vanno a comporre minuscoli paesaggi di fiaba, incapsulati per opporsi all’usura del tempo. Foglie bianche appuntate con aghi da entomologo sopra ad uno strato di sabbia. Fiori lanuginosi che avvolgono come bambagia una casetta, un guscio vuoto, un frammento di alveare, a ricordo della dolcezza e della protezione dell’infanzia. In Virgin Bed coniglietti bianchi si assiepano intorno a un letto ai piedi del quale c’è un grappolo di frutti rossi. E in Walking to the End il guscio di una chiocciola si trasforma definitivamente in una casa, verso la quale si dirige una fila di formiche. Il simbolismo della chiocciola è il fulcro dell’installazione ambientale presentata allo Studio Cannaviello: una scala spiraliforme come la sezione aurea, ricoperta di una miriade di gusci di lumaca dipinti di bianco, che invita tutti coloro che volessero salire la scala della perfezione a distruggere i carapaci delle piccole creature. Perché innocenza e crudeltà sono le due antinomie alla base dell’universo di Tamara Ferioli.
Luiza Samanda Turrini