TEATRO VALDOCA _ IDENTITA’, ALTERITA’ E MUTAZIONE___ Analisi iconografica e Cultural Studies applicati alla Trilogia di Paesaggio con Fratello Rotto


Valdoca , Paesaggio con Fratello Rotto


Parlare del corpo è così raffrontare due vie antitetichedi costruzione dell’ordine della cultura:l’una, esteriore all’evento, statica, coercitiva,omogenea, rappresentativa, tragicamente duale;

l’altra, attiva, fattuale, mobile,volta al conseguimento dell’azione efficace sulla necessità.

Maria Bianca Pirani , Corpo: i ritmi del caos


Ma io? Io? Io?

Io sono

due volte io.

Questo infelice corpo doppio

la mia disgrazia

è il mio ornamento. Ora.

Mariangela Gualtieri, A Chi Esita


Il combustibile è il testo.

Ma il comburente, quello che fa esplodere il testo,

è l’attore.

Cesare Ronconi


Il teatro della Valdoca nasce da un’unione sinergica di corpo e testo, drammaturgia e messinscena, carne e verbo.

La confluenza del lavoro della drammaturga Mariangela Gualtieri e del regista Cesare Ronconi dà vita ad un’azione scenica in cui si fondono le propaggini estreme del tempo e del significato, dalle Avanguardie artistiche, al rito orgiastico primitivo, alla sacra rappresentazione, alle apparizioni numinose dei freak-show, fino all’innovazione estetica proiettata nel futuro, oltre a ciò che sta accadendo ora. Nel teatro della Valdoca coesistono la fissità dell’archetipo e la natura instabile del decostruzionismo.

L’opera di Mariangela Gualtieri si colloca in uno spazio atemporale dell’arte poetica, in cui converge la potenza dell’origine della lingua italiana, con le parole nuove di Dante Alighieri, e la dolcezza del balbettio infantile, del canto seduttivo e sregolato che precede il concetto e che costituisce la comunicazione primaria fra madre e figlio. Nelle parole della Gualtieri la sintassi viene sfrondata fino al suo stato essenziale, mediante un’arte ricombinante di radici e desinenze, e una serie di visioni dell’uomo e del mondo che si incunea dentro, che arriva a parlare ad una parte dell’essere profonda e misteriosa.

La sua parola scuote, sorprende, commuove, interroga l’io in prima persona. Racconta di che cosa sono costituiti il dolore, la crudeltà, la solitudine, e si accinge «all’impresa più alta e rischiosa, (…) parlare della gioia, pronunciare la parola “amore”. Ritrarre la bellezza del mondo (…) nominare il bene

La Gualtieri possiede un dono poetico così grande che riesce a infrangere la dicotomia logica più ovvia e naturale, quella fra vita e morte, e a rendere precari i confini di questi due poli irriducibili dando voce a chi abbiamo perduto.

Come cassa di risonanza per i suoi versi, come “potente contrappunto, Cesare Ronconi crea uno spazio scenico che è spazio psichico, simbolico, endogeno. Il corpo è il fuoco centrale della sua rappresentazione. Un corpo fluido e danzante, quello degli acrobati di strada e degli equilibristi circensi. Un corpo trascendente, che appartiene ad esseri semidivini e all’attore santo di Grotowski, che ha dichiarato: “Io parlo di “santità” da miscredente: mi riferisco ad “una santità laica”. Se l’attore (…) scopre se stesso gettando via la maschera di tutti i giorni, egli permette anche allo spettatore di intraprendere un simile processo di auto-penetrazione. Se egli non esibisce il suo corpo, ma lo annulla, lo brucia, lo libera da ogni resistenza agli impulsi psichici, allora egli non vende il suo corpo, ma lo offre in sacrificio; ripete l’atto della Redenzione, si avvicina alla santità.

Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Fango che diventa luce, Oracolo con testa di orso, altoL’uso delle maschere è rivelatorio degli aspetti sotterranei della natura umana, e si iscrive nella prassi artuadiana delle maschere sacre, per una liturgia teatrale in cui il corpo, dipinto di bianco, si astrae dalla sua natura umana e si proietta in uno spazio altro. Ronconi dispiega un orizzonte simbolico densissimo, che si avvale fortemente di un apparato transculturale di simboli religiosi. La dimensione della sacralità si iscrive nell’elemento più immanente che ci è dato conoscere, quello della corporeità umana, rievocando Antonin Artuad, Merleau Ponty e Michel Foucault.

Cappabianca nel suo saggio sull’immagine estrema, ha presentato Artaud in questo modo “Battendosi tutta la vita, salvo forse una parentesi di totale disperazione nel più profondo inferno del manicomio, con la breve “conversione religiosa” (presto rinnegata), contro lo “spirito” infestato dai “fantasmi della vita interiore”, coacervo di tutte le più “fantasmagoriche nauseanti bestialità”, Artaud non ha fatto altro che dire: il sacro è nel corpo.” E Merleau Ponty, nel 1945, ha espresso la sua concezione di sacralità: “Lo Spirito è solo nel corpo. L’uomo è corpo, è totalmente corpo.” Michel Foucault è stato ancora più radicale: “L’anima è la prigione del corpo, un trucco per mantenerne il controllo .”

Giulio Cesare Casseri, Tabulae Anatomicae, 1627, incisioni Francesco Valesio3Le scelte drammaturgiche infondono nella trilogia di Paesaggio con Fratello Rotto un sostrato che si oppone alla normativa metafisica, al vincolo di non contraddizione, alla regola del soggetto di derivazione platonico-cartesiana. Il flusso della narrazione soggiacente e criptata rispetto alla rappresentazione teatrale mostra come le due polarità apparentemente inconciliabili di maschile/femminile, conoscenza/ignoranza, mente/corpo, possano fondersi alla fine di un conflitto che passa anche attraverso il momento della morte. I protagonisti della scena rappresentano una serie di identità mobili, multiple, difformi dalla norma, che fanno del mutamento la loro cifra stilistica e la loro ragione di esistenza. L’instabilità, l’ibridazione, la ricerca della vera struttura nascosta al di là del rimosso trova nella trilogia una vasta eco di corrispondenze.


I_ FANGO CHE DIVENTA LUCE

 A partire da Aristotele, l’ossessione dei greci logici fu quella di classificare in categorie discretei flussi eterogeneidella realtà.

Maria Bianca Pirani, Corpo: i ritmi del caos

Sinossi dell’azione

Sulla scena arriva un musicista, che si siede all’organo e inizia a suonare. Subito dopo di lui arrivano tre Animali, una Donnola, un Orso, e una Giraffa. Gli Animali interagiscono con un enorme tavolo sulla scena, studiandolo, giocandoci, perdendosi nello spazio sotto di esso. Poi avanzano fino alla ribalta portando delle cose verso il pubblico: la Giraffa un cobra col cappuccio, l’Orso un ventaglio e un ramo fiorito, la Donnola le sue mani tese.

Entra in scena l’Oracolo. È una donna. Il Macellaio viene dietro di lei sorreggendole il manto.

L’Oracolo pronuncia il suo primo monologo. Si interroga sul sapere da trasmettere alla discendenza dell’umana specie, sulle origini della sofferenza, sul posto dolente dell’umanità all’interno dell’armonia del cosmo.

Nel frattempo il Macellaio va ad esaminare gli Animali con una torcia, e poi si rannicchia sullo strascico dell’Oracolo. Le bestiole, sulla destra della scena, si coccolano. Alla fine del suo monologo, l’Oracolo si toglie il manto e solleva due braccia da dea indiana che porta legate al collo.

Gli Animali vanno sul proscenio e fanno una serie di gesti apotropaici ripetendo «Paura, Vergogna, Dolore».  Poi salgono sul tavolo a turno, spontaneamente.

Il Macellaio, sul limitare della scena, fa il suo primo recitativo, in cui sfida dio a fermarlo, ed espone i suoi progetti di carneficina, narrando quali saranno le modalità con cui ucciderà gli Animali. Li schernisce, e promette che li ammazzerà nonostante la loro bellezza. Nel frattempo gli Animali si alternano sul tavolo e si contorcono come sotto tortura.

L’Oracolo riflette sul concetto di dolore, sulla sua fenomenologia e sulle sue cause.

Nel frattempo l’Orso inizia a danzare col suo ramo fiorito in mano.

Gli Animali, muniti di lunghi bastoni, indietreggiano e salgono sul piano del tavolo, e il Macellaio va da loro, sdraiandosi addormentato ai loro piedi.

Gli Animali, con l’aiuto dei bastoni, soffiano dentro il corpo del Macellaio, in corrispondenza della gola, del plesso solare, e dei genitali. Ripetono la stessa operazione, appoggiando il seno all’estremità del bastone, come se gli stessero infondendo nutrimento. Dopodichè, buttano il Macellaio sotto il tavolaccio ed iniziano uno spettacolo di luce, ombra e danza con le torce, al suono di una messa di Bach. La Giraffa urla ripetutamente, fa oscillare la torcia, pesta sul tavolo con un gran rumore.L’Oracolo abbraccia la testa di un orso bianco con un bersaglio disegnato sul collo.

Il Macellaio, da sotto al tavolo, scandisce un recitativo dedicato alla Madre, in cui confessa di essere la peggiore delle creature.

Nel frattempo la Giraffa si applica un morsetto sul seno, mentre le altre due giocano e si stringono. Il Macellaio inizia a battere da sotto al tavolo, con una spranga di ferro.La Giraffa urla con tutte le sue forze. La Donnola fa una performance corporea meccanizzata e marziale, mentre il Macellaio esce da sotto al tavolo, incrocia due lunghi pali e incastra il suo corpo in mezzo a loro. Gli Animali lo accerchiano e lo interrogano sui motivi del suo male, al suono di una musica natalizia per organo.

Gli Animali si sdraiano abbracciati sotto un telo. Il Macellaio li agguanta uno per uno, e li uccide. L’Oracolo assiste alla carneficina con urla mute.

Dopo aver ucciso gli Animali, il Macellaio va a ghignare sul tavolaccio con in mano un ventaglio e una borsetta femminile. Poi recita un monologo in cui prende commiato dalla sua anima. Dopodichè si soffoca.

L’Oracolo auspica l’avvenimento di un nuovo stato di coscienza, di un pensiero fecondo, che sappia commuovere ed elevare, privo di vincoli razionalisti. Un modo di pensare che funzioni secondo le modalità potenti dell’amore, che sappia generare e creare una visione più ampia, che riesca a vedere la bellezza del mondo, che sia capace di provare empatia per l’Altro.

Con tre schianti e tre movimenti di braccia, diretti a testa, cuore e plesso genitale, l’Oracolo cade morta.

Il musicista suona una lunga sonata di organo.


LA MACELLERIA

Foto_Roberto_Biatel_005La scena di Fango che diventa luce è scarna. Lo sfondo è costituito da un velo di plastica che scherma il sipario nero. Sulla destra del proscenio c’è uno strumento musicale a tastiera. Abbiamo poi un enorme tavolo col piano di metallo, obitoriale, che si erge sopra a dei supporti di legno. Questo tavolo configura lo spazio del rito, in cui convergono mensa, altare, palcoscenico.

Quando sono gli Animali ad agirlo, diventa spazio magico, diviso in un sopra e in un sotto, ctonio e terrestre, talvolta aereo, grazie alle scarpe da punta e ai giochi volanti.

Sotto l’egida del Macellaio invece è il tavolo della notomia, il patibolo dei condannati a morte, la prigione di chi viene sottoposto a tortura, il macello e il laboratorio delle cavie straziate. È il luogo in cui la carne diviene materiale sperimentale, e il corpo dell’altro diventa oggetto, macchina da smontare, corpo di dolore.

Darstellung des Räderns in einem Holzstich von 1586La regolarità geometrica e il materiale metallico che compongono il piano del «tavolaccio» ascrivono il manufatto alla produzione umana, ma la sua base, fatta di tronchi grezzi e contorti, è nello stato di natura. Il rapporto vittima/carnefice permea la cultura umana in tutte le sue forme, ma trova un corrispettivo innato nella catena alimentare.

Su questo tavolo si svolge un’interazione virtuale ma palpabilissima fra il Macellaio e gli Animali, che salgono a turno e spontaneamente sopra di esso, contorcendosi come sotto l’effetto di corrente elettrica o violente sollecitazioni dolorose. Tutti e tre gli Animali, durante la loro tortura, cadono dal tavolo per tre volte, come Cristo sulla via del Calvario, rimarcando la dimensione sacra, ovvero connessa con la sfera religiosa, di tutte le vittime.


Diabàllein

 Devil, 14th century woodcut

«Che mi venghi a cercare – che facci il suo lavoro d’animale – che corre dentro al sangue – che mi venghi a cercare che mi venghi a salvare – che mi venghi a far male – che mi venghi a cercare –a far bene a far male – che facci il suo lavoro di creatore – che mi venghi a scovare – che mi si inficchi dentro, un passo verso – un passo verso giù, che si venghi a immerdare – a impastare, che si venghi a spaccare a sporcare – che mi venghi a parlare – tagliare sua distanza micidiale – scoprire sue cartacce scure – che mie ore dure, non ci voglio pregare – non ci voglio chiamare – non ci voglio non ci prego non ci invoco – non infoco mio cuore, ginocchio non ti piego

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Mentre gli Animali si contorcono e cadono il Macellaio dice il suo primo monologo sul limitare della scena.

Questo monologo è un lungo urlo. Comincia con una sfida a Dio, un dio freddo, muto, latitante, che viene appellato come «animale che corre dentro al sangue» ed esortato a venire a cercare il Macellaio stesso. L’encefalogramma emotivo del monologo è molto irregolare, alterna momenti implosivi, di richieste trasversali di salvezza, ad altri in cui l’ira deflagra assieme all’orgoglio. Il Macellaio impazzisce per la mancanza del garante dell’Ordine. Dio rappresenta il bene, il potere supremo, si colloca ai vertici di tutte le gerarchie. Il Macellaio avverte il paradosso della sua mancanza di intervento nei confronti del male, che egli stesso incarna. Pertanto tutto il sistema di valori del Macellaio, binario e fondato su una subordinazione oppositiva, mostra la propria inconsistenza, e si appresta a crollare.Dio viene sfidato a manifestarsi violentemente, smembrando il corpo fisico del Macellaio (“Che – vegnisse – sbrancasse – accioccasse – vegnisse come lui pare, ci pare, vegnisse, scassasse”),  perché altrimenti quello stesso corpo sopprimerà gli Animali. Dio viene esortato a fermare il Macellaio con verbi omologhi a quelli che usa lui per descrivere la progettualità delle sue azioni, verbi di brutalizzazione del corpo, di violazione, lacerazione, rovina : “Non salvo animale, ci inficco pugnale – e scasso, sconquasso, ci spengo cuore, ci tronco – respiro, bestia te mangiare, io te sanguinare, – bestiaccia animale, sbrindello, randello spacco“.  E infine si rivolge alle sue vittime, in toni beffardi (Che ti venghi a salvare. Che venghi che venghi a te miracolare, – tuo bello Signore, tuo Dio di animale, tuo alto Fattore) , usando dispregiativi attinenti alla sfera bestiale, a quella del cibo, a quella delle creature senza anima. Questa prassi è comune a tutti i torturatori, come afferma Maria Grazia Pirani : “Per mantenersi conforme al proprio universo politico e morale, l’esecutore deve giustificare in qualche modo la pratica della tortura: disumanizzazione della vittima mediante la negazione della soggettività, o mediante la trasformazione del corpo della vittima, espressa nella menzogna del linguaggio. Pertanto la vittima diviene un cane, uno straniero, un mostro a due zampe. Tutte le tecniche di disumanizzazione tendono a ridurre il conflitto presente nel torturatore, negando qualunque potenziale identificazione con la vittima come “altro” essenziale, non come me, come mio fratello, come mio vicino.»

Nelle ultime battute del monologo il Macellaio ammette di vedere la bellezza dell’Animale, ma questa bellezza è inutile, proprio perché la sua vittima occupa il posto subordinato di disvalore nella coppia binaria Uomo/Animale


 FRATELLO ROTTO

Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Fango che diventa luce, Macellaio

Chi è il Macellaio?

È l’unico maschio presente in scena, ed è imponente, rasato a zero, completamente dipinto di bianco. La sua bocca e i suoi denti sono sbavati di rosso, perché come tutti i macellai è carnivoro, e si nutre di carne viva, irrorata di sangue. Ha un grembiule di cotta di maglia, perché è sia lavoratore che soldato. Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Fango che diventa luce, Macellaio, cotta di magliaGli stivali di gomma gli servono per camminare nel sangue che versa. Macellaio è la denominazione di un mestiere, e il Macellaio è un lavoratore. Lavora e basta, anzi, lavora a soffre, la sua sofferenza si riversa all’esterno contro oggetti-valvola, e poi torna dentro di lui mediante processo di feed-back. Il suo aspetto ha qualcosa di vagamente clownesco.La sua tragicità, il suo essere una creatura lacerata, ha la sua causa nelle fratture dualistiche della logica occidentale, che il Macellaio ha fatto proprie.Egli è il soggetto cardine della metafisica, schiacciato dalla sua struttura.

Maschio, bellicoso, lavoratore inserito.

La diade più inconciliabile per il Macellaio è quella ego/alter, che lo porta ad infierire su tutto ciò che è diverso da lui. Ma anche quella che oppone il gioco al lavoro, fortemente voluta dalla volontà manageriale del sistema economico, che ha separato in modo netto l’orario di lavoro dal tempo libero e dal gioco. In molte culture pre-logiche o agricole, il lavoro segue ritmi naturali e non standardizzati, lasciando ampissimi margini di tempo libero. In queste culture il gioco è un costituente fondamentale del tessuto sociale. Gli Animali, durante il loro tentativo di cura, rimproverano al Macellaio di non giocare.Victor Turner afferma che “ la parola “Play” deriva dall’inglese antico plegan, “esercitarsi, muoversi liberamente”. (…) Walter Skeat, nel suo Concise Etymological Dictinary of the English Language, ricorda che il termine anglosassone plega “gioco, sport” significa anche (comunemente) “lotta, battaglia” (:..) Secondo il Webster’s Dictionary “play” è : a) azione, movimento o attività, specie se libera, rapida o leggera” (…) Qui, come spesso accade il gioco è concepito come leggero, in contrapposizione alla pesantezza del lavoro, come libero, in contrapposizione al carattere necessario o obbligatorio del lavoro, come rapido, in contrapposizione alle modalità caute e mediate che caratterizzano i processi lavorativi abituali. (…) Play può significare anche “attività sessuale, amoreggiamento.”

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Il figlio più sporco

Il dramma interiore del Macellaio emerge nel recitativo dedicato alla Madre, in cui si dipinge come la peggiore delle creature. Il lessico adoperato è attinente alla sfera delle patologia (la tossina, la peste, il figlio più malato), della rottura (il figlio più rotto, l’osso rotto), dell’errore (lo sgorbio della creazione, la macchia sul quadro perfetto, l’innesto sbagliato che darà il frutto mal fatto). E poi emerge il campo semantico dell’immondizia ( il figlio più sporco, il figlio carogna, lo sputo, il frutto guasto, la macchia, il relitto, il rifiuto), e quello della distruzione (la bestia senza pietà, il fumo del mondo, la caduta, la bufera che rovina).

woodcut werefolwIl Macellaio confessa di provare paura, dolore e vergogna, usando le stesse tre parole scandite dagli Animali prima di salire sul tavolo del patibolo. Il carnefice suscita il suo orizzonte mentale quotidiano nella psiche della vittima, per potersene liberare con un processo di transfert, per vederlo all’opera dentro qualcun altro, per dimenticarsi che è quella la gamma di sentimenti che più gli appartiene.Il Macellaio, torturando gli Animali, mette in scena il suo copione interno di rovine. I resoconti delle relazioni dell’Associazione delle cliniche psichiatriche del Nord America sulla sindrome da stress post-traumatico negli ostaggi e nelle vittime di tortura del 1994 afferma che ” Lo scopo del torturatore è di ottenere una conferma del proprio universo nelle parole della vittima. Il torturatore non sa con sicurezza perché egli (di solito è un uomo) stia torturando la vittima, né se sia nel giusto eseguendo la tortura. Nella tortura, l’esecutore cerca la conferma al suo personale universo ideologico e morale e alle proprie azioni. Se la vittima non consegna la sua anima assieme al suo corpo, il torturatore viene sconfitto e arriva a temere ogni episodio di tortura. Numerosi resoconti sulle torture hanno sottolineato questa paura dell’esecutore di identificarsi con la vittima.” 

Paura, dolore, e vergogna riverberano dal carnefice alla vittima, confondendo i loro ruoli, rendendoli instabili.

E un’instabilità ancora maggiore è data dall’interruzione del circolo vizioso ad opera degli Animali, che non odiano il Macellaio dopo quello che ha fatto, ma anzi tentano di guarirlo.

 


Feminae

Bonatti-Virgo, 1491  classical representation of Virgo as a young womanMaschio/femmina costituisce un’altra coppia della logica binaria fondamentale per indagare la lacerazione del protagonista. Egli è un nucleo autoreferenziale, incapace di venire a patti con l’altro da sé. Uno dei poli differenziali rispetto al Macellaio è appunto quello femminile. Le sue interazioni con gli Animali e i loro corpi muliebri si risolvono nella violenza, nell’abuso, nel disprezzo, e nel riconoscimento di una bellezza che è il corollario della violenza stessa.

Nel suo secondo recitativo il Macellaio si rivolge a un’altra donna, la Madre, indirizzando a lei un lungo autoritratto stravolto, che si conclude con la pretesa che sia lei la responsabile del suo male: “Tu mi hai fatto imperfetto, separato dal vero – e dal cielo. Che cosa volevi da me?”

Dopo aver ucciso gli Animali, il Macellaio si appropria di uno dei loro attributi femminili, il ventaglio, e di una borsetta da donna, dopodichè sale sul patibolo, scimmiottando gesti femminei ed altri che, sottolineati dal sonoro, rievocano l’attimo dell’uccisione. Ghigna come se fosse in preda ad un’estasi composita di ilarità e follia. Poi si scopre il viso, con un’espressione smarrita, e guarda i corpi morti che lo circondano.

C’è un’ultima figura femminile, a cui il Macellaio rivolge le sue parole finali, dopo aver compiuto la carneficina. Sono le sue uniche parole di tenerezza e amore privo di pretese. Questa destinataria è la sua anima, la parte femminile di sé, l’intuito, la creatività, l’emotività, l’empatia. Gli appellativi usati dal Macellaio per designarla sono attinenti alla sfera regale, a quella della parentela, a quella dell’età infantile, e sono tutti corredati da locuzioni e aggettivi relativi alla cattività, alla consunzione, alla tristezza. (Mia prigioniera, (…) mia principessa murata, mia regina ammalata, mia bambina che non ride, mia forte regina ammutolita, mia vegetale bambina, figliolina smagrita). L’anafora dell’aggettivo possessivo marca la connessione profonda fra l’oratore e la destinataria. Avendo rinunciato a questa parte di sé, femminile e pertanto incoerente alla sua organicità logica di maschio, il Macellaio si appresterà a morire. Robert Blair, The Grave, object 7 (Bentley435.6) The Soul hovering over the Body reluctantly parting with Life


 COLEI CHE SCORRE

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Che cosa diremo a quelli che nascono ora – che scusa troviamo per questo disastro umano – che cosa abbiamo dimenticato? Che cosa – quando piangiamo. Quando – siamo a pezzi. Quando – il sole non ce la fa più – a darci consolo. Che cosa si è – da noi scancellato? Quale – semplice formula? Che parola, che cifra?

L’Oracolo


L’Oracolo è alta, ieratica, e la sua voce è metallica e potente come quella del Macellaio. Indossa attributi regali, mantello e corona.

Il suo copricapo è molto simile a quello di Sarasvati, dea indiana della conoscenza, dell’eloquenza e delle arti. Come Sarasvati è vestita di bianco e ha quattro braccia, che rappresentano le quattro facoltà dell’uomo implicate nell’acquisizione del sapere: la mente, l’intelletto, la coscienza, l’ego.Nel corso della storia della sua fruizione simbolica, Sarasvati è stata la divinità dell’apprendimento, dell’ispirazione, della verità e del perdono. Sri Aurobindo traduce il suo nome con «lo scorrere, il movimento fluente», associandolo ai flussi di pensiero e alla parola, e all’emissione della capacità creativa. Sri Aurobindo, definito da Aldous Huxley come “il Platone delle generazioni future”, è stato, fra le altre cose, brillante studente a Cambridge, grecista, giornalista, attivista per l’indipendenza dell’India, mistico induista, filosofo e poeta. Il tratto che lo distingue dalla maggior parte dei guru indiani è un grande senso dell’umorismo, della levità e dell’autoironia.

Saraswati_f._StrassenpujaL’Oracolo, durante i suoi recitativi, tiene gli occhi chiusi. Sopra le sue palpebre sono tracciate due grosse iridi, che indicano una seconda vista, avulsa dai sensi, che si mette all’opera quando gli occhi fisiologici sono chiusi. Dr. Herman Pinetti, THE DUNHAAM PRESS, 1905Il mito occidentale celebra questa condizione nella figura di Tiresia, che era cieco e nonostante ciò aveva il dono della profezia.  Foto_Chiara_Sbrana1


Illuminata

L’Oracolo porta un piccolo serpente fra le sopracciglia, come l’aspide sulla fronte dei faraoni. Secondo la mappatura sacra del corpo nella filosofia induista, fra gli occhi è situato un ganglio energetico, l’Agya Chakra, corrispondente alla ghiandola pineale, la cui attivazione dà la conoscenza dell’essere e la percezione del mondo invisibile

Bharatnatyam Mudra Kundalini L’apertura del famoso terzo occhio corrisponderebbe all’arrivo nella zona cerebrale di Kundalini, una vampa di energia latente, che dona la comprensione del mondo e la consapevolezza di sé. Kundalini è rappresentata come un serpente che giace addormentato alla base della spina dorsale, e che si snoda lungo di essa per giungere alla testa, seguendo tappe che corrispondono ai principali centri nervosi. Il nome Kundalini significa “avvolto, arrotolato, spiraliforme”. La simbolo della spirale comparirà di nuovo in maniera indiretta fra gli attributi dell’Oracolo che vedremo in seguito.  9-Devi-Marble-12th C. Vimal Vasahi Temple-Mt.Abu


Tre visioni

India_SaraswatiGoddess_MetropolitanMuseumOfArtL’Oracolo entra in scena con una corda-bavaglio sulla bocca, che storpia le sue parole, e che impedisce una loro agevole articolazione. Per lei parlare è più faticoso che per gli altri. Questo perché la sua parola ha una pregnanza quasi divina. L’Oracolo non è una profetessa, non predice il futuro, non è una vera e propria strega, non modifica il mondo tramite azioni rituali, non interviene. L’Oracolo ha una visione sinottica del presente, che la porta a vedere i rizomi delle possibili articolazioni future, i crocicchi delle coincidenze e delle probabilità.Alla fine del suo primo affresco sul tema dell’uomo e del suo dolore, l’Oracolo solleva le due braccia da dea indiana che porta appese al collo, e se le pone davanti agli occhi. Le mani di queste braccia sorreggono un disco e una conchiglia.

Il disco è simbolo del tempo ciclico, in opposizione al tempo teleologico lineare. Il tempo ciclico è il tempo del mito, in cui tutto ritorna, ed ogni evento continua a ripresentarsi periodicamente con altro aspetto, configurando una linea curva, spiraliforme, di cui il disco rappresenta un’astrazione. E’ il tempo dei bioritmi femminili, il tempo della terra, del susseguirsi delle ore e delle stagioni. Si contrappone alla linea retta del tempo di matrice cristiana, in cui dalla genesi si procede verso l’avvento e successivamente verso l’apocalisse, in un concatenarsi logico e necessario di cause ed effetti. Il tempo lineare è il tempo maschile, che procede a tappe discrete verso la morte, mentre quello spiraliforme è di matrice femminile, che si muove in direzione della rinascita e del cambiamento.

La conchiglia rimarca il simbolismo femminile. È una delle strutture biologiche che si modella a spirale, ed ha una spiccata accezione sessuale, rappresenta la vulva. L’Oracolo si pone questi attributi davanti agli occhi perché il filtro attraverso cui passa la sua visione, il suo imprescindibile presupposto, è costituito dalla sua natura femminile. Se non fosse donna, l’Oracolo non riuscirebbe a vedere. A large mother-of-pearl powder horn, India, 17th-18th century

La sua bocca è evidenziata da una striscia di colore rosso.Se per il Macellaio lo stesso trucco serviva ad evidenziare le sue connotazioni violente e cannibali, per l’Oracolo ha tutt’altra pregnanza semantica, convergendo nuovamente nella direzione del potere conoscitivo del femminino. Nel suo saggio sulla mappatura sacra del corpo, Evaristo de Miranda dice che:   La bocca è di fondamentale importanza per l’insieme organico e psichico dell’uomo. Essa è l’apertura, l’orifizio e lo spazio per dove passano e sono regolati il fiato (che entra ed esce), la parole (che esce), il cibo (che entra). (…) Essendo l’organo della parola (logos, verbum) e dell’alito (ruah, spiritus) la bocca è un simbolo femminile del potere creatore, un simbolo creativo, la manifestazione dei gradi più elevati della coscienza. La sua immagine è spesso associata con quella della vulva, a motivo delle sue labbra e della sua umidità. Dei sette orifizi della testa (due occhi, due orecchi, due narici e una bocca) l’unico dispari si riferisce all’articolazione sonora, espressione di come l’uomo percepisce e comprende il mondo.”

 Philippe-Frédéric Blandin’s Treaty of Topographical Anatomy, 1834

L’Oracolo osserva la tortura degli Animali e riflette sul concetto di dolore. Definisce il dolore come angoscia di separazione (Questo guardare – una cosa e sentirla altra cosa – questo non essere in pura unione), come sensazione di estraneità, ed ipotizza la sua origine nell’ansia di possedere cose (Tu mente pericolosa che dici: mia casa, mio prato – mio campo grande, mia acqua. Mio corpo.).Indica il dolore come un sentimento egoistico e narcisista, ed esorta un tu ipotetico a liberarsene, prendendosi cura di cose fuori di sé, trascendendo in questo modo i propri confini individuali.

Prima dell’ecatombe finale l’Oracolo ha la sua terza visione, sulla via che conduce alla liberazione dal dolore. Se il male dell’uomo è il suo isolamento irrelato, la sua guarigione è possibile nella relazione con l’Altro, nel paradigma dell’amore. 

Chi ci guarderà come si guarda il bambino che dorme (…) Chi ci chiamerà per nome con una tenerezza che trasforma (…) Chi raschierà via il nostro umano – e ci farà di brace che splende (…) Chi ci darà istruzioni nuove (…)

L’Oracolo auspica l’arrivo di un soggetto amoroso salvifico, che vigili, conosca, elevi, insegni. L’amore è visto come la suprema facoltà di ibridazione, di instabilità fra i poli, di superamento della frattura duale. Le sue dinamiche verranno rappresentate nelle seconda parte della trilogia. 


 Love/ Death

Adam and his wife, children and Death Woodcut made by Sebald Beham, Printed in Nuremberg, 1530. 'Adam and his wife.

L’Oracolo e il Macellaio sono uniti da un forte legame d’amore.

L’Oracolo nei suoi quadri di disperazione ed isolamento descrive il Macellaio, campione perfetto dell’umanità dolorosa. E il Macellaio la venera. Nella loro entrata in scena lui le tiene lo strascico come un servitore, e poi si inginocchia di fianco ad esso. Durante il primo monologo dell’Oracolo il Macellaio si addormenta sul suo mantello in posizione fetale.

Il loro legame potrebbe essere di filiazione, l’Oracolo potrebbe essere il destinatario del monologo sulla Madre. In effetti, gli attributi di Sarasvati, nel tempo pre-vedico dell’origine del suo culto, si sovrapponevano a quelli della Grande Madre.

Nello stesso tempo il loro legame potrebbe essere incestuoso, e loro essere i genitori dei tre cuccioli sulla scena, di cui alla fine il Macellaio fa strage come Saturno con la sua discendenza. O ancora, a livello simbolico, se il Macellaio rappresenta il corpo e l’Oracolo la mente, gli Animali potrebbero essere l’interfaccia che li unisce e modula i loro rapporti, l’anima, la facoltà emotiva, relazionale, affettiva.

Il massacro finale costituisce una riflessione sulla morte, intesa come perdita totale di sé. I corpi sulla scena in Fango che diventa luce potrebbero costituire un grande corpo scisso nelle sue facoltà. Il Macellaio rappresenta la parte materiale, la carne, la violenza, l’istinto. L’Oracolo è la mente, le facoltà intellettuali, la filosofia. Gli Animali incarnano l’anima, l’emotività, l’amore, il gioco. Sono tre, come le tre anime individuate da Platone nella Repubblica.

Il fratello rotto non è dunque solamente il Macellaio, ma sono tutti gli attori in scena, che tratteggiano pertanto l’essere umano individuale e l’umanità, la collettività divisa.

de humani corporis fabrica, vesalio, 1543


 CARNE DA MACELLO 

Foto_Chiara_Sbrana2


«ANIMALI : Non chiedere mai nulla che sia meno della gioia. – MACELLAIO : Presto sarò felice, ve lo giuro, prestissimo. – A : Tu rimandi sempre. Troppe volte ci hai ingannati, troppe volte. (…) Ora entra in questa ferita – M : Ma non ci riuscirò – A : Ci riuscirai – M : Ma non sono ancora pronto – A : Non è questione di tempo – M : Debbo aspettare il mio momento – A : Ma non vedi che sono io il tuo momento? Io, che mi faccio ferire»


La musica, i rumori e il ritmo sono elementi drammaturgici cruciali, la musica precede l’azione e la conclude, è l’elemento che eccede i confini del testo.Il primo attore ad entrare in scena è il musicista. È scalzo come tutti i folli, indossa un chimono nero, e il suo trucco da geisha con cerone e rossetto si coniuga perfettamente alla barba nera. Come la maggior parte degli attori coinvolti nell’azione, il suo corpo si declina secondo i crismi della liminarità e dell’anomalia, in questo caso quella di un patente ermafroditismo.

valdoca, paesaggio con fratello rottoDopo di lui arrivano gli Animali, nell’ordine la Donnola, la Giraffa e l’Orso.

Le reali interazioni dell’essere umano con gli animali si risolvono nella maggior parte dei casi in uno sfruttamento mortale, che ruota intorno alle industrie della carne, della pellicceria, delle cavie da laboratorio. Gli animali sono indifesi al cospetto dell’uomo civilizzato, e non possono riflettere rappresentazioni negative dell’essere umano perché sono privi di parola. Questa loro condizione di subordinazione reale e simbolica fa di loro le vittime perfette, emblemi delle dinamiche di un potere totale e necessariamente impunito.

All’interno del sistema logico binario della metafisica occidentale, i tre Animali rappresentano sotto vari aspetti posti eminenti di dispregio. Sono donne, sono animali, sono cuccioli-bambini, sono tutto ciò che è altro rispetto al soggetto maschile produttivo ed irregimentato, che alla fine li uccide. Incarnano il corpo scacciato dalla polis dell’apollinea razionalità, il corpo ritmico, che danza, salta, gioca, si intreccia amorosamente. A causa di queste colpe, il loro corpo è quello delle vittime.

 «Il corpo ritmico, che è innanzi tutto il corpo della donna, fu per il pensiero riflessivo un mito ed un sogno conteso fra la proibizione e la trasgressione. (…) Il pensiero riflessivo ne ha ridotto spessore ed efficacia alla tentazione con cui il serpente biblico attentò alla “virtù di Eva”, sotto l’albero del bene e del male. Il corpo ritmico è in realtà per le società patriarcali del Libro, la colpa originale.», dice Maria Bianca Pirani.

Le maschere degli Animali si modellano sulle fattezze costitutive delle attrici che li interpretano: un corpo altissimo, fatto di muscoli e sinuosità per Silvia Calderoni, la Giraffa, uno tenero e burroso per Marianna Andrigo, che indossa la maschera dell’Orso, e infine un corpo piccolo, leggero e mobilissimo per Muna Moussi, la Donnola.

La caratteristica che accomuna questi animali è il fatto di allattare la prole, di essere dei mammiferi. Il loro latte e il loro respiro sono cruciali nel tentativo di cura a cui sottopongono il Macellaio. Guhlielmo hunter, uterus


La cura

Mentre il Macellaio è nell’incoscienza del sonno, i Tre Animali, muniti di lunghi bastoni, soffiano dentro il suo corpo, dopodichè vi inoculano nutrimento attraverso i seni. Entrambe le operazioni sono sottolineate da una serie di sonore note d’organo, molto basse, e si svolgono appoggiando i bastoni in tre zone del corpo del Macellaio, cuore, gola, genitali. Evaristo De Miranda dice : «Dal punto di vista biblico-simbolico, il cuore è, assieme ai polmoni, un artefice del soffio e della vita. (…) Il duplice movimento del cuore (sistole e diastole) evoca il duplice movimento di espansione e riassorbimento, di divergenza e convergenza, dell’uomo e dell’universoAnatomia Humani Corporis, Centum & Quinque Tabulis - Govard Bidloo, 1685.

Una geografia simbolica simile si riscontra per il plesso genitale, sede delle facoltà procreative, zona in cui si realizza l’unione con l’altro. La gola e il collo si configurano come luogo connettivo fra le linee di rottura in cui è scisso il Macellaio, creatura emblema della divisione di corpo, mente, ed emotività.

«Il collo (…) simboleggia in senso discendente il passaggio della vita all’azione, la comunicazione dell’anima con il corpo, la via per la quale si manifesta e passa la vita. (…) Il collo comanda tutto, sia come luogo d’origine dei nervi più importanti del corpo (pneumo-gastrico, simpatico, nervi del cervello, del cuore, della tiroide, del fegato, della circolazione), sia come luogo di passaggio degli enormi canali della digestione, circolazione e respirazione

Anatomy of the throat from 'Atlas and Epitome of Operative Surgery' by Dr. Otto Zukerkandi, 1902.Mentre lui è sotto al tavolaccio, come dentro ad un’incubatrice, gli Animali cercano di coadiuvare la cura donando altri ingredienti molto importanti : la bellezza di una danza ambivalente, di luci ed ombre, che unisce la grazia di movimenti ampi e oscillanti e la violenza di urla e colpi. Il Macellaio, sotto al tavolo, pronuncia il monologo della confessione alla Madre, in uno stato di semi-coscienza, di sonnambulismo, in cui la sua rabbia tace e viene fuori la sua sofferenza. Nel frattempo gli Animali aggiungono altri due ingredienti complementari, distillati apposta per il loro ammalato: la tenerezza e il dolore. La Giraffa si infligge dolore con un morsetto, e la Donnola e l’Orso si vezzeggiano sul piano del tavolo, proprio sopra al Macellaio.

Ma la cura non riesce. Il Macellaio si sveglia, e in lui riaffiora subito l’istinto distruttore. La Giraffa allora si piega in grida disperate.

Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Fango che diventa luce, Giraffa mors


Bestiario

Ma chi sono gli Animali? Vediamo ora le caratteristiche simboliche di questi quadrupedi.

La giraffa, in natura, è un erbivoro dinoccolato con occhi enormi e dolci, un animale esotico.

«L’attributo exotikòs si riferisce, nella lingua greca classica, all’ “altro”, allo “straniero”: ovvero a colui che risulti eterogeneo rispetto all’omogeneità sancita dai nòmoi, le leggi (…)Woodcut, Allocamelus scaligeri

La giraffa infatti si distingue per la sua fisionomia aliena, per l’ampia visione della realtà datale dall’altezza, e per il fatto di avere un cuore che pesa intorno ai quindici chili, aggiudicandosi il primato di grandezza fra i mammiferi terrestri. Nel manifesto di presentazione del Festival teatrale nella Centrale Fies di Drosedera, nell’anno 2005, vi erano la Donnola e la Giraffa, e quest’ultima sorreggeva all’altezza del petto un cuore rosso. drosedera fiesLa Giraffa, alla sua prima apparizione in scena, reca in mano un serpente, simbolo transcontinentale dell’anima, del mondo dei morti, di uno stadio indifferenziato dell’essere39. Al serpente spetta un posto singolare all’interno della tassonomia animale, per la muta stagionale della pelle, il veleno, la mobilità, la bellezza.  This emblem featured in the trial of the Earl of Arundel, in relation to the suspected treason of Mary, Queen of ScotsNella cultura greca è associato alla dea della conoscenza, Atena, e dà il potere di comprendere le voci degli animali. Il serpente ureo compare anche sulla fronte dell’Oracolo. Athena_GiustinianiLa maschera dell’Orso si situa in un affollato crocevia simbolico. Presso le culture nordiche incarna l’omologo comportamentale dell’uomo, come la scimmia in quelle orientali ed africane. Questo per l’indole giocosa e simpatica (Dante nelle Rime Petrose parla de «l’orsa quando scherza») e per le molteplici modalità di accoppiamento, riportate dai bestiari medievali e da Plinio il Vecchio. La simbologia dell’orso ha una polarità maschile, inerente alla forza e alle virtù marziali, che riecheggia nell’onomastica e nell’araldica medievale.Questo aspetto viene sviluppato nella mitologia nordica, in cui i guerrieri posseduti dal dio Wotan si trasformavano nei feroci ed invulnerabili Berserker, letteralmente “dalla pelle d’orso”.Siberian bear-hunting armor, 19th century Per quello che riguarda invece la polarità femminile del simbolo, di nostro più urgente interesse, l’aspetto che viene messo in evidenza è quello dell’affetto materno proprio della specie.Nel Bestiario Moralizzato di Gubbio si sosteneva la tesi che i cuccioli di orso, informi al momento della nascita, venissero plasmati dalla madre nel momento in cui li puliva con la lingua. La maternità costituisce probabilmente il più macroscopico attributo differenziale della donna rispetto all’uomo.Un altro attributo dell’orso è quello di nutrirsi di miele, che si pone in relazione con la dolcezza della parola divina, con la verità e la profezia. Nella seconda parte del primo atto i tre Animali si rivolgeranno al Macellaio, per dirgli chi è davvero e che cosa deve fare se vuole salvarsi.

«Animali: Hai tradito la seconda legge. Forse non sei nemmeno degno di pregare. Hai capito che non puoi vincere. Hai capito che non puoi invocare le forze benigne – Macellaio : Ma come invocare queste forze? – A : Chiamale, nella loro lingua, attraile, esse verranno – M. : In che modo? – A. : E’ la quantità d’amore che determina la vittoriaAugustin Hirschvogel, 1503-1553, Bear_HuntAbbiamo infine la Donnola, simbolo archetipico della levatrice, correlata al tema della nascita, della sofferenza ad essa connessa, e alla solidarietà femminile. Assieme al furetto, nel Medio Evo la donnola era simbolo di lascivia, perchè il suo insinuarsi nelle tane dei conigli era ritenuto un’allusione alla meccanica del coito. Quindi nuovamente vediamo come la simbologia degli Animali si colleghi alle tematiche del corpo e della sessualità femminili.

Engraving by Bohemian etcher Wenceslaus Hollar (1607-1677) depicting a cockatrice being attacked by a weasel wrapped in rueLa Donnola incede verso il proscenio senza portare nulla, se non le sue mani tese.

«Le mani danno e ricevono, afferrano e lasciano; colpiscono, proteggono, puniscono e carezzano. Fanno cenno, dicono ciao e arrivederci; mettono in guardia, ammoniscono e guidano; demoliscono e smontano, curano e riparano, mettono insieme, dividono e radunano

MUSCLES OF THE PALM OF YOUR HAND : Benard lithograph 1832 after a drawing of NH JACOB.

La connotazione infantile degli Animali è palese, per le loro movenze giocose, le carezze reciproche, le danze che fanno. La Donnola prenderà in giro perfino lo stesso istinto omicida del Macellaio, riaffiorato dopo l’esito fallimentare della cura, facendone una parodia robotizzata e militaresca.

Gli Animali pertanto rappresentano un campione di umanità fuori dalle normative razionali, aliena e mutante. Un’umanità che fra i suoi valori annovera il gioco, la cura dell’altro, la conoscenza, la leggerezza, il dono, e che da sempre è in balia del «nemico abissale».


Corpi scomodi

I tre Animali vengono incarnati da corpi che si pongono radicalmente sul versante dell’alterità, di sesso, di gender, di razza.

Silvia Calderoni ha una corporeità di assoluta androginia, data dall’altezza della sua figura, dalle fasce muscolari in evidenza sulle cosce, dall’assenza di seno, dai lineamenti “efebici”. Nei primi minuti dello spettacolo lo spettatore è portato ad interrogarsi sul suo sesso effettivo. In più i costumi di scena, un frac di pailettes dorate, una culotte zebrata e un paio di scarpe nere con cinturino e tomaia rialzata iscrivono la sua maschera nella categoria queer, che al di là dell’estetica è soprattutto un’istanza inerente a comportamenti sessuali difformi dalla normativa eterosessuale. L’attributo che porta verso la platea, il cobra col cappuccio, oltre all’ovvia simbologia erotica, si ricollega ad un’idea di mutazione e cambiamento periodico, di variabilità identitaria. Foto_Roberto_Biatel_095

Marianna Andrigo, che interpreta l’Orso, ha seni generosi e forme morbide.Il suo corpo è quello più carnalmente femminile, e per tanto rappresenta la categoria di alterità della donna.I suoi attributi, il ramo fiorito e il ventaglio, sono muliebri.Il ventaglio rappresenta la seduzione, gli apparati della moda, la grazia e la leggiadria. E anche l’elemento dell’aria, il soffio, lo spirito, che ha in sé tutte le radici dell’anima, dalla psychè greca alla ruah ebraica.Il ramo, invece, rappresenta il potere generatore della natura. Foto_Roberto_Biatel_001

«Eterogeneo, rispetto alle leggi della città, è il corpo ritmico, innanzi tutto, il potere generatore del corpo femminile. Sulla repressione di questo potere si fonda la legge omogenea della “città degli uomini.», dice la Pirani. 

 Muna Mussie, l’interprete del Topo, è nera. Bianco/nero è una delle coppie cardine dell’economia binaria su cui si fonda la metafisica occidentale, cucita su misura del suo soggetto, maschio, eterosessuale, bianco. Secondo questa normativa manichea la polarità del bianco rappresenterebbe la purezza e la verità, quella del nero invece la negatività in tutte le sue forme. Nella realtà i neri sono storicamente stati sfruttati dai bianchi come schiavi, come oggetti sessuali, come forza lavoro. Nei loro corpi si iscrive la reminiscenza della diaspora, dell’esilio, della schiavitù, del passato coloniale. Foto_Roberto_Biatel_105


Le MetamorfosiGoltzius_Ovid_Bronze_Age, Ovid's Metamorphoses, 1590

La morte dei tre Animali potrebbe essere una morte simbolica, la rinuncia alla parte più infantile e ludica dell’ego ai fini di conseguire un più alto grado di auto-realizzazione. Tutti e tre gli Animali si ripresentano nel secondo atto con delle maschere che costituiscono lo sviluppo virtuoso delle loro qualità “devianti”.

L’Orso abbandona le punte e il tutù dell’icona infantile della ballerina classica e apre il secondo atto con una mirabile prova di danza contemporanea. Lo stereotipo recita che tutte le bambine desiderano fare le ballerine da grandi, la danza è un’arte intrinsecamente femminile, e la danza contemporanea costituisce uno dei punti di approdo più alti dell’arte coreografica occidentale.

La Giraffa si trasforma nella Geisha, intraprendendo la strada della conoscenza attraverso la sperimentazione sessuale, già iscritta nel suo primigenio aspetto queer.

La Donnola si trasforma in una creatura alata, semidivina, col corpo nero esibito in una mise da bambina selvaggia, con gonnella di paglia e attributi animali totemici, le ali.

La confluenza dei primi due atti della trilogia configurerebbe in tal modo un rito di passaggio dall’età dell’infanzia fino all’età adulta, in cui i genitori scompaiono e i destinatari del rito devono interagire con altre figure che appartengono al mondo, per seguire la loro natura.


 

II CANTO DI FERRO

 Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Canto di Ferro, Ricamatrice

«In questo fuoco tornano a danzare gli dei. Gli dei infrangono la barriera di cemento armato che separa, nella cosiddetta “struttura di realtà”, il corpo del singolo dal corpo della materia e della società. Essi sono i protagonisti del salto nel reame del chàos e della follia. In quanto acrobati del chàos promettono il sorriso di Eros nel dies irae dell’immanenza

 Maria Bianca Pirani, Corpo: i ritmi del caos


Sinossi dell’azione

Entra in scena il musicista, che inizia suonare uno strumento a percussione. Dopo di lui arriva la prima Ballerina, che sorregge in alto sopra la testa un tronco scolpito. Lo depone sul proscenio, e scopre la propria dentatura, completamente metallica. Entra l’altra Ballerina, che porta birilli, palline di legno intagliato, e una fionda. Danzano a lungo sulla scena.

Arriva quindi la Ricamatrice, che si infila una lunga parrucca rossa, si siede ed inizia a ricamare, facendo dei versi disarticolati.

Entra la Ragazza Uccello, a cavalcioni del Ragazzo Cane. Dopo essere salita su una postazione sopraelevata, scalcia via il Ragazzo Cane, che cade a quattro zampe e gattona fino alla Ricamatrice.

Al suono di una musica più ariosa arriva la Geisha, sorreggendosi a due stampelle. Tutti si fermano per guardarla. La Ricamatrice la apostrofa dicendo che a lei tocca un compito di purificazione. Le dice che è bella, e che il suo destino è l’amore.La Geisha si prostra per terra, e poi si corica su una branda.

Il Ragazzo Cane si aggira per il palco sbavando e urlando. La Ricamatrice si alza e canta Lili-Marlene, accompagnata da un coro generale. Il Ragazzo Cane recupera la Ragazza Uccello dal suo trespolo, e se la carica sulle spalle.La Ballerina consegna un lunghissimo palo di legno fra le mani della Geisha, che sta sdraiata sulla sua branda.

La Geisha recita il suo primo monologo.Nel frattempo la Ragazza Uccello ondeggia per il palco sulle spalle del Ragazzo Cane, mormorando le parole della Geisha.Dopo il suo monologo la Geisha crolla addormentata.

Il Ragazzo Cane urla il suo recitativo. La Ragazza Uccello scende dalle sue spalle e corre in fondo al palcoscenico, dove salta a lungo sul posto. Le Ballerine pongono le maschere degli animali fra le loro gambe aperte. La Ragazza Uccello si va a sedere sulle ginocchia della Ricamatrice, dove recita un monologo amoroso.

La Geisha si china ad abbracciare il Ragazzo Cane, sdraiato sul proscenio. Inizia a gattonargli intorno con movenze seduttive, e infine si mette carponi sulla branda. Al suono di una musica esplosiva, la Geisha e il Ragazzo Cane simulano un’interazione sessuale servendosi del bastone di legno. La Ragazza Uccello balla violentemente.

La Ricamatrice biascica, e quando la musica cessa si sentono i suoi singhiozzi.La Ragazza Uccello si copre gli occhi con le mani, si piega in due e si allontana. La Geisha piange a dirotto e viene sollevata dalle due Ballerine.Una delle due la apostrofa con fare materno.

La Ragazza Uccello gioca con i birilli e le palline di legno. Il Ragazzo Cane scalpella dei blocchi lignei. Le Ballerine tolgono la parrucca alla Geisha, le sollevano le mutandine che portava alle ginocchia, le tolgono le sue scarpe di tortura. La lasciano distesa, mentre tutti gli altri personaggi si alzano. La Ragazza Uccello va sulla torre a tracciare iscrizioni luminose sul pannello nero. La Ricamatrice si rimette la sua maschera e afferra la catena al collo del Ragazzo Cane. Le sue urla fanno eco a quelle della Geisha, posizionata davanti a una scatola di metallo verticale, illuminata da dentro, che la incornicia come una bara. La Geisha dice un ultimo monologo antifrastico sulle brutture del mondo, guerra, follia, violazione e morte, in cui immagina che esse non abbiano mai avuto luogo.

Gli altri personaggi sul palco, in piedi, si fronteggiano a coppie, e mormorano il recitativo con lei.

 


La transizione

La scena di Canto di Ferro è gremita di simboli e presenze, e racchiude un contrasto potente fra la violenza di una messa in scena fatta di danze di guerra, urla, colpi, turbini di corpi che si danno l’assalto, e una parola molto più dolce e conciliante di quella impiegata nella prima parte della trilogia.

Il nero della base scenografica di Fango che diventa luce si trasmuta in un bianco abbagliante, ricordando il processo della sublimazione alchemica che dalla corruzione della nigredo porta alla purificazione dell’albedo. Anche il musicista, che nel primo atto indossava un chimono giapponese nero, nell’atto secondo ne indossa uno bianco.

Ma il bianco rappresenta la purezza solo ad un livello superficiale. Nel profondo vuol dire mutazione, cambiamento, passaggio da uno stato all’altro. In corrispondenza delle postazioni dei personaggi abbiamo enormi colate di rosso, e l’accostamento di rosso e bianco richiama alla mente i furori orgiastici dell’Azionismo Viennese. Hermann NitschIl primo elemento drammaturgico a palesarsi è la musica, prima ancora che il musicista entri in scena. È un sonoro che abbandona le ieratiche scale di organo del primo atto, fatto di percussioni tribali e risonanze noise, un sonoro che ricorda ambiti rituali in cui il rombo dei tamburi si fonde con quello del sangue.La ripetitività delle cadenze ingenera uno stato percettivo alterato detto trance, fondamentale per moltissimi riti di iniziazione.

Ritroviamo sulla scena il tavolaccio, che però perde il suo ruolo centrale, posizionandosi lateralmente come se fosse un ricordo ai margini della coscienza. Sopra di esso campeggia un dipinto di grande formato, con un volto contratto, come una sorta di Munch imploso, privato dell’urlo. Sull’altro lato si trova un altro quadro a pannello, scuro e materico, e la piccola torre della Ragazza Uccello.

Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Canto di ferro, dipinti


TERSICORE

Le due Ballerine sono figure gemellari. Sono entrambe nude, ad eccezione di uno slip, bianco per la prima, nero per la seconda. La prima Ballerina porta in scena un tronco di legno con incisa una figura umana, che per le dimensioni potrebbe essere un bambino. Lo depone sul proscenio, come ad alludere alla creazione futura o potenziale di una vita. Non dimentichiamo infatti che la prima Ballerina è la stessa attrice che ha interpretato l’Orso in Fango che diventa luce, e che tutti i suoi attributi sono attinenti alla sfera muliebre e al potere poietico del corpo, che può andare in direzione degli incanti della seduzione, della creazione artistica, o anche della maternità in senso stretto. In Canto di ferro il suo corpo è esposto. Al collo porta delle cuffie, apparati di ascolto solitario, il cui spinotto è inserito nella stoffa del suo unico vestimento, all’altezza delle viscere. La sua prima azione plateale è quella di scoprire i denti in un sorriso metallico. I suoi denti infatti sono tutti ricoperti di materiale argenteo. Il suo personaggio non parla per tutta la durata dello spettacolo, come se il “canto di ferro” le avesse ostruito i condotti vocali. Il canto di ferro sarebbe quindi un’istanza che parte dalle viscere, che coniuga la grazia di un canto con la durezza e la marzialità del ferro. È una spinta ad andare all’assalto del mondo, e rappresenta la giovinezza dei tre Animali, che nel primo atto erano dei cuccioli indifesi. Il canto di ferro si conficca nella gola della Ballerina come una colata di mercurio cromo, per lei le parole diventano impraticabili ed inutili. La Ballerina lascia le parole agli altri. Il suo personaggio è afasico e profondamente attivo, di rado la vediamo stare ferma. Dopo aver mostrato a tutti il suo sorriso si lancia in una danza estatica, con cui prende possesso dello spazio, agendolo ed abitandolo prepotentemente.

La sua gemella porta in scena dei giocattoli di legno scolpito, e una fionda, che tende verso il pubblico mimando un urlo. La fionda è un manufatto ibrido a metà strada fra il giocattolo per piccole pesti e l’arma di guerra, la stessa con cui David ha sconfitto il gigante Golia. È uno strumento che scombina le abituali categorie di potere, ordine e forza, e viene nominato in una parte successiva della partitura drammaturgica: «E noi ultimi andiamo – con fionde con archi – con frecce – contro il nemico abissale.»

David with Goliath's head 1651

Le due Ballerine occupano la scena con comportamenti giocosi. Soprattutto la prima, che danza, salta, si dimena sopra a una piccola slitta di legno, deambula trascinandosi dietro una carriolina giocattolo. Con un’impudenza spensierata la vediamo accoccolarsi dietro al timpano per fare la pipì, e scacciare con un gesto il Ragazzo Cane che la importuna.

 


Vagina dentata

Le due Ballerine, durante il monologo del Ragazzo Cane, si sdraiano e pongono le maschere degli Animali fra le loro gambe aperte. Avanzano poi verso la platea, arrancando come ragni, creando una sorta di innesti mostruosi che sembrano usciti dai dipinti di Hieronymous Bosch. La loro postura sembra alludere all’equivalenza fra la sessualità femminile e la bestialità, che permea la nostra cultura fin dagli albori della polis greca, e trova ampia risonanza nel Medioevo e nel Rinascimento con le dottrine che vedevano l’utero femminile come un organo mobile, una creatura animata libera di muoversi nel corpo «a guisa d’alcuna fiera selvatica», come viene detto nel trattato rinascimentale di Giovanni Marinello, e come riporta Ottavia Niccoli  nel saggio Il corpo femminile nei trattati del Cinquecento. Dopo questa parata, le Ballerine ripongono le maschere sul tavolaccio, abbandonandole per sempre.

 


Madre simbolica

Le azioni delle Ballerine convergono principalmente sul personaggio della Geisha. Sono loro che le porgono il bastone di legno, che la sorreggono quando va in pezzi, che le tolgono le sue lancinanti scarpe da punta, per poi farne un loro nuovo giocattolo. La Ballerina gemella indirizza alla Geisha un recitativo di benedizione. Le dice che avrebbe voluto lasciarle in eredità un regno ordinato, bello e morbido, al posto di dolore, contaminazione, cecità e rabbia.

La chiama «bambina mia», come se fosse sua madre. Ovvero la madre simbolica, una figura di natura archetipica elaborata dal dibattito femminista di scuola italiana, fondato su soggettività femminili liberate dalla pratica relazionale con altre donne. Adriana Cavarero spiega che «Alla separazione classica fra la madre come fonte di vita e il padre come garante dell’ordine (…) si contrappone la coincidenza di entrambe nella sola figura materna. Gli attributi di autorità e potenza – ascritti fra l’altro alla figura materna di un immaginario cattolico che in Italia è assai influente – vengono a caratterizzare l’ordine simbolico della relazione fra donne (…) che prevede una disparità e un debito. Invece del principio della sorellanza come garante di una indistinta uguaglianza, la relazione madre-figlia trova infatti la sua misura nella naturale verticalità del loro rapporto, riferito allo scambio fra riconoscimento di autorità e facoltà di linguaggio, fra debito e dono.»

Il dono della madre simbolica in questo caso è la speranza nel mondo e negli esseri umani, e una benedizione di commiato, in cui esorta la Geisha a non avere paura, perché il suo destino è l’amore. 


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La Ricamatrice si manifesta in scena come un prodigio, come una creatura assolutamente astratta dalla dimensione umana. La sua altezza sembra sbalorditiva, e il suo corpo è dipinto di bianco da capo a piedi. Cammina arrancando come un mostro non abituato a spostarsi attraverso la gravità terrestre. In una mano reca un oggetto ligneo, che potrebbe essere una candela o uno scettro, nell’altra una maschera di gesso che riproduce esattamente i suoi lineamenti. La maschera, e la sua translazione nel concetto di duplicità, sarà un tema centrale di Canto di Ferro, impostato sulla dicotomia scenica fra racconto e rappresentazione, sulla creazione di nuclei scenici in cui avviene un racconto orale coordinati ad altri nuclei in cui questo racconto viene agito, e sull’interazione di personaggi che costituiscono uno il doppio dell’altro. La maschera della Ricamatrice ha sorprendenti analogie con quella di cui parla Richard Weine, nel suo saggio sull’incisione di Agostino Carracci, Ritratto dell’attore Giovanni Gabrieli con una maschera.

«Sembra oltremodo inadeguata come maschera teatrale : le labbra (…) non permettono quasi di far passare la voce. Inoltre la maschera è inespressiva, e non è definibile chiaramente nemmeno riguardo al sesso che rappresenta. La sua forma sembra corrispondere ai contorni del viso dell’attore; vista così è piuttosto un rivestimento del volto, od un raddoppiamento, che non la maschera di un ruolo

Agostino Carracci, Ritratto dell'attore Giovanni Gabrieli con una maschera, La Ricamatrice è un essere profondamente duplice, innanzitutto sul versante del genere. Il ricamo è un’arte muliebre, che nei tempi antichi si correlava alla regalità e all’esercizio del potere femminile. Il ricamo è come la pittura, ma buca la superficie e crea nodi radicali sotto di essa. La Ricamatrice traccia segni con un filo rosso fuoco, e sul suo telaio si intravede anche la figura di un cavallo, o forse di un cervo.Mariangela Gualtieri nel Parsifal afferma:  «Io non so se l’amore sia una guerra o una – tregua, non so se l’abbandono d’amore – sia una legge che la vita cuce fino al – ricamo finale (…).»

Il ricamo pertanto potrebbe essere una metafora delle relazioni, degli incroci e dei legami. Ma la Ricamatrice, nonostante la sua denominazione femminile, l’esercizio che pratica, la sua gestualità rotonda e femminea, è un maschio. Nel segno di un’ibridazione dei sessi la Ricamatrice presiede un siparietto queer in cui canta Lili Marlene, celeberrima canzonetta d’amore dei tempi della guerra, aprendo due ventagli e ponendoseli ai lati della testa. Il titolo della canzone contiene il nome di Marlene Dietrich, icona omosessuale senza tempo. Questo sketch capita in un momento drammatico, in cui il Ragazzo Cane ulula la parola “mamma” e sembra che qualcosa di terribile stia per accadere, configurandosi come attimo ludico, liberatorio e desublimante, a cui partecipano tutti i personaggi. L’interruzione della tragedia da parte della Ricamatrice, e la sua trasformazione in varietà si connota ancora una volta nel segno dell’instabilità dei poli. Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Ricamatrice Lili MarleneLa Ricamatrice si configura come creatura bifronte anche per quanto riguarda il suo rapporto con la parola. È il primo personaggio a parlare, apostrofando la Geisha riguardo al suo destino e alla sua bellezza, ma più volte la vediamo biascicare suoni senza senso, urlare con contrazioni spastiche del volto e del corpo, come se non riuscisse fisicamente ad articolare le parole. La Ricamatrice spesso si scioglie in lacrime. I suoi singhiozzi trovano un corrispettivo in quelli della Geisha, che costituisce il suo doppio speculare. Abbiamo già sottolineato precedentemente le connotazioni androgine di Silvia Calderoni, interprete della Giraffa nel primo atto e della Geisha nel secondo, che si rispecchiano nel dimorfismo sessuale della Ricamatrice. Entrambi indossano una parrucca della medesima foggia, rossa per lui e nera per lei. Quando la Geisha, sul finire della rappresentazione, si toglie la parrucca mostrando il cranio rasato, la sua somiglianza con la Ricamatrice risulta sorprendente, tanto che sembrano fratelli gemelliSilvia Calderoni (la Geisha) e Gaetano Liberti (la Ricamatrice) hanno interpreto una piéce di Samuel Beckett con Motus, A place that again, in cui giocano molto sulla loro somiglianza fisica.


TAINTED LOVE

 Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Canto di ferro, Ragazza Uccello

È difficile decidere dove finisce la Ragazza Uccello e dove inizia il Ragazzo Cane. Per la maggior parte del tempo scenico i due formano un unico corpo, il corpo di un totem altissimo e regale, e anche nei momenti di scissione i loro gesti sono condizionati dalla reciproca assenza.

La Ragazza Uccello è altera come una principessa, ha ali nere cangianti che sbatte con contrazioni delle spalle, e il suo corpo sottile e leggero sembra fatto apposta per il volo. I suoi piedi non toccano per terra per tutta la prima parte dello spettacolo, perché sta sulle spalle del Ragazzo Cane, oppure su una torre che fronteggia un pannello metallico inciso, sulla quale ogni volta la depone il suo servitore.

Lui è nudo, sporco, e porta una catena da schiavo al collo. La sua pelle è dipinta di nero. Non è capace di stare in posizione eretta se non quando deve sorreggere sulle spalle la sua regina alata, e si sposta gattonando, come una bestia o un bambino non auto-sufficiente. Dopo essersi fatta portare nella sua torre/trono, la Ragazza Uccello scalcia via il Ragazzo Cane con indifferenza, lui cade carponi e gattona via. Si aggira per il palco con atteggiamenti disgustosi. Sbava e chiama la mamma. Assume espressioni stolide sporgendo la mascella in avanti. Il Ragazzo Cane ha insomma tutte le caratteristiche ideali dello schiavo, la sottomissione, l’aspetto stupido, il comportamento bestiale, e, non da ultimo, il colore della pelle. La Ragazza Uccello nel frattempo si occupa del suo pannello nero, che illumina con una torcia, e colpisce ritmicamente durante il coro di Lili Marlene.Non si cura minimamente del suo portatore, non lo guarda mai.

Durante il monologo iniziale della Geisha, il Ragazzo Cane recupera la Ragazza Uccello dalla sua torre, e insieme fluttuano sul palco, ondeggiando come una pianta alta e flessibile. Lei tiene gli occhi chiusi, e mormora le parole della Geisha, che parlano di un annuncio luminoso, di nutrimento, di purificazione, di elevazione, e poi del corpo, della sua bellezza e del suo funzionamento portentoso, e infine della magnificenza del mondo.

«Annunciare le stelle – accogliere quel loro pane – nella mente – farsi nutrire.- Dondolare la mente fino alla pulizia totale. – tendere all’insù, come dettano – le cime delle piante.- Che cosa sei tu? Movimento- del sangue che prende – aria e la circola per tutto – il regno. La diffonde. Io respiro. – Sono nella vita in una forma – respirata, tiepida, morbida, e rosa. – Respiro continuamente. È il mio – punto d’innesco alla fiamma centrale. – E’ così semplice: respiro. Sono. Sono qui.- Una forza mi aziona il battito – gonfia e svuota il polmone. –Una forza mi tiene qui. – La terra è bellissima ora – avvolta in un cielo fiammeggiato.- Sento la sua antichità serena – quel suo essere cosmo5»

Il monologo, in sinergia con la messinscena, sembra raccontare dell’amore, di come deifichi il corpo e di come riveli la bellezza delle cose. La Ragazza Uccello dondola sulle spalle del Ragazzo Cane, come se volasse. Muove le braccia con movimenti ampi e sognanti, sorride, e il Ragazzo Cane non le stacca gli occhi di dosso. La loro danza sognante, il loro essere un unico corpo, sembrano alludere all’amore nelle sue accezioni sia spirituali che carnali. Vi si vede la vertigine di una condizione in bilico, il rapimento, l’estasi.


Slave

JoJo, The Russian Dog BoyPoi il Ragazzo Cane racconta se stesso. Si dipinge come un prigioniero sul procinto di annegare, come una bestia spezzata che soffoca. Dentro di lui c’è il buio, ci sono tempeste e «prigioni non visitate dall’ONU», brutti ricordi di «torture e bastonate». È convinto di meritarsi la sua condizione di miseria ed asservimento.

Inizialmente la Ragazza Uccello è sulle sue spalle e parla assieme a lui, come se fosse una delle sue voci interiori. La più severa, la più realistica, la più cattiva. Quella che è stata introiettata dopo anni di sopraffazioni. La voce del padrone.

«Chi affoga là dentro? Chi non ce la fa? – stenditi bestia rotta. Senti per bene il dolore – quel tuo respiro poggiato su un buco. – dormi bestia zoppa, o muori, forse. – non abbiamo più voglia – della tua lagna, del tuo stare male – che si ripete da ere.».

Appena la Ragazza Uccello scende dalle sue spalle, il tono caustico comincia a stemperarsi. La voce diventa lucida, decisa, induce a farla finita con il dolore, a prendere la decisione di smettere di stare male, a non permettersi soste depressive.

«Vola. Adesso. Basta fingere quel rasoterra. – Vola. Vola. Vola. – Sei più immenso dell’angusto – abitacolo del corpo. Non fingere più. – Sorgi. Ora. Rimandi sempre. – Prenditi tutto lo spazio. Brucia tutto – il tempo. Sorvola le cime del mondo. – Alloggia nel tuo cuore le fate. Le orchesse. Le creature incantate – sono tutte qui. A te circondate. – Vaporizza il pensiero fino al puro – respiro. Ritorna al principio. – c’è tutto lo strascico di polvere d’oro – che fa di te un guerriero in faccia ad Orione. – Hai cieli, hai stelle, hai prodigi di gioia – e abiti nel triste sgabuzzino della vita

Il Ragazzo Cane rivolge queste ultime parole ad un busto ligneo raffigurante un cane con grossi chiodi conficcati nel collo, una specie di feticcio figurale di se stesso. Poi si addormenta abbracciato ad esso, mentre le due Ballerine avanzano strisciando con le maschere animali in mezzo alle gambe, in un’atmosfera onirica e sospesa.

 


La caduta

Nel frattempo la Ragazza Uccello, dopo aver mimato assieme al Ragazzo Cane le parole del suo ritratto doloroso con toni urlati e beffardi, scende dalle sue spalle con un gesto infantile, distratto, e si trova improvvisamente a terra, giù dalla sua torre/trono, senza nessuno che la sorregga. Allora corre sul fondo del palco, e lì inizia a saltellare sul posto, come se tentasse di spiccare il volo ma non ci riuscisse. Va avanti per tutta la durata del monologo del Ragazzo Cane, con movenze da giocattolo rotto.

Viene così marcata la scissione di una coppia in evidente condizione di squilibrio, in cui a livello simbolico una parte dona a profusione affetto e sostegno, e l’altra prende con noncuranza senza ricambiare. Una coppia non paritaria e basata sullo scambio, ma gerarchizzata, fondata sulla sudditanza. La Ragazza Uccello avanza verso il proscenio e si siede sulle ginocchia della Ricamatrice. Parla, per la prima volta con la sua voce, senza simulare parole altrui, e la sua voce è affannata, piena di respiro. La Ragazza Uccello dimostra di aver capito la natura dell’amore, ma solo nell’attimo in cui è venuto a mancarle.

 «Amore mio, è difficile da questo fondo, da questo finale, dire come mi manchi, come immenso tu sei nel mancare, adesso che mi sono persa fra masse dure, fra cinghie di buio pesto, senza divinità, senza la tua mano che tutto sorregge. Tu mi credi più forte, mi pensi in oro e argento, ma guarda l’orma che lascio, come di cagna, di passero stanco, di bruco, di mosca. Non vedi come mi spengo se non mi ami? Mi secco come una pianta. Amami ancora un poco, con cura, con tempo, con attesa. Amami come amano i forti spiriti, senza pretesa, con fuoco generoso, con festa, senza ragionamento.E scusa questo mio domandare ciò che si deve dare, questo avere bisogno, scusalo. Non è degno del patto che lega la rondine al suo volo, la rosa al suo profumo, il vino al suo colore, il tuo cuore al mio

La Ricamatrice sta dietro di lei, e la abbraccia, solo le sue braccia e le gambe color gesso sono visibili, in netto contrasto con il corpo color ebano della Ragazza Uccello. La figura bianca e mozzata della Ricamatrice sembra quasi il fantasma di chi non c’è più, colui al quale sono dirette le parole d’amore, che rimane confinato in un orizzonte di assenza, di non ritorno, di morte. FOTO_ROLANDO_PAOLO_GUERZONI5

Dopo l’abbandono, la Ragazza Uccello si metterà in un cantuccio a giocare con i birilli di legno, con un aspetto molto meno serioso di quando era una principessa intoccabile. Il Ragazzo Cane si metterà a scolpire blocchi di legno, stando per la prima volta in posizione eretta senza aver bisogno di sostenere nessuno. 


VENERE MUTANTE

Quando la Geisha entra in scena tutto si ferma. C’è un vistoso scarto del codice sonoro, i tamburi tribali tacciono, e parte un pezzo di musica per archi. Tutti i personaggi interrompono le loro attività e la guardano. La Ricamatrice riesce finalmente ad articolare i suoi versi spastici in parole di senso compiuto, le prime che dice, le prime in assoluto ad essere udite sulla scena di Canto di Ferro.

«Tocca a te, ora, – a te tocca la lavatura di queste croste – delle cortecce vive. – C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto. – Io ora lo vedo di più. – C’è splendore. Non avere paura. – Ciao faccia bella, – gioia più grande. – Il tuo destino è l’amore. – Sempre. Nient’altro. – Nient’altro. Nient’altro

La Ricamatrice assegna alla Geisha un compito di purificazione. Il fondale che si intuisce fra le righe è un mondo buio, sporco e pauroso. Ma la Ricamatrice le dice di sperare nella luce, di cui ha avuto la visione e di cui attesta l’esistenza. Le dice che l’amore sarà la sua fatalità, e la sua buona stella.

La Geisha indossa una lunga parrucca nera, che le scende fra le gambe come la coda di una gatta. Christopher Hallpike riferisce che:

«Dal momento che la maggior parte degli animali è molto più coperta di peli degli esseri umani, alcune culture possono utilizzare questa differenza per esprimere la distinzione fra i regni della cultura e della natura. (…) I capelli lunghi si considerano appropriati al sesso femminile perché appaiono soffici e morbidi, mentre i capelli tagliati a zero sono associati ai maschi perché permettono alla forma del teschio di essere visibile, dando un aspetto convenientemente forte e squadrato. O ancora, i capelli corti possono esprimere valori puritani, e i capelli lunghi il loro oppostoHand grasping a beautiful young woman's long, dark hair. 'Bromide print, Circa 1910

La Geisha, verso la fine del secondo atto si toglierà la parrucca per mostrare la testa rasata, e anche il suo personaggio gemello, la Ricamatrice, si mette e si toglie più volte la parrucca, alternandola a volte con un borsalino, confondendo di continuo la propria morfologia sessuale.

La Geisha porta un paio di mutandine abbassate al ginocchio, e indossa delle scarpe fetish con la punta di gesso, come le scarpette delle ballerine classiche. Queste calzature sono dolorosissime da portare, e praticamente impossibili da usare senza un sostegno. La Geisha arranca appoggiandosi a delle stampelle, e ogni passo per lei è una sofferenza, come per la Sirena della fiaba di AndersenAnche la sirena, in quanto ibrido fra l’uomo e l’animale, è associata simbolicamente a una sessualità libera, priva di normativa, in particolar modo per la mentalità perversa e moralista dell’epoca vittoriana. «La sirena è dunque l’opposto dell’incantevole ondina, in lei , incarnazione del principio bestiale della natura femminile, riaffiora la forza maschile della primigenia condizione bisessuale. (…) Le sirene sono aggressive, avide, insaziabili ninfomani.» (Bram Dijkstra, Idoli di perversità)

Three sirens from the Ballet Comique de la Reine

Dai capezzoli della Geisha scende un rivolo rosso, come se fossero stati morsicati a sangue, e il suo corpo è segnato da graffi e segni. Tutto nella sua fisicità rimanda ad una semiosi di sessualità sregolata, di eccesso ed abuso.

Come abbiamo sostenuto nella prima parte del saggio, il personaggio della Giraffa, caratterizzato nel segno di un’identità queer, si evolve nel secondo atto nella maschera della Geisha. Storicamente le geishe erano delle figure sociali paragonabili ad artiste di grande caratura, eccellenti in tutte le arti che presupponevano una messa in scena in presenza, la danza, il canto, la musica, e il teatro di derivazione Kabuki. Collateralmente molte di loro erano dedite alla prostituzione d’alto bordo, ma sempre rispettando i crismi di un’ambiguità che rendeva ineffabile un giudizio sul fatto se si prostituissero realmente. Vediamo come ci sia una continuità evolutiva fra il personaggio della Giraffa e quello della Geisha. Sotto alla branda su cui la Geisha si corica, per piangere, riflettere sull’amore, dormire o accoppiarsi, c’è nascosta la sua vecchia maschera da Giraffa, come un ricordo vestigiale del suo passato e della sua infanzia. Una sorta di amuleto, per non dimenticare la propria origine, per non scordarsi del suo primo bozzolo identitario. Fra la Giraffa e la Geisha c’è una continuità anche per quanto riguarda un particolare segno tracciato sul corpo. Entrambe hanno una X all’altezza delle ovaie. 

«La croce diagonale con braccia di eguale lunghezza è un segno molto antico, si trova inciso nelle pareti delle caverne preistoriche in tutta Europa. (…) Nel sistema del vecchio alfabeto runico è chiamata gif o geba, e significa dono. (…) Questo segno ha un amplissimo spettro di significati che vanno dal confronto, all’annullamento, alla cancellazione. Vuol dire privazione di senso, opposizione, poteri opposti, ostruzione, errore. E anche sconosciuto, non familiare, incerto, inquieto, mutevole, instabile(Carl G. Liungman, Dictionary of symbols)

Tutte queste caratteristiche mutanti, le coincidenze oppositive, il dono di sé, fanno parte della natura intima di entrambe le maschere.

Subito dopo essere stata apostrofata dalla Ricamatrice, la Geisha si prostra carponi, con la fronte a terra, in una posizione che ricorda le posture della preghiera, ma anche quelle del coito. La Geisha di Canto di Ferro è una sorta di prostituta sacra. Il suo personaggio rimanda a un’idea di sessualità divinizzata, come attività di indagine sul mondo. Il verbo biblico che indica l’intercorso carnale è, non a caso, «conoscere». La sua attività si pone all’insegna di sbalzi insostenibili fra il polo del piacere e quello del dolore. Oltre ai rivoli di sangue che le scendono dal seno, le scarpe da tortura, i segni sul corpo, gli slip abbassati alle ginocchia, più volte la vediamo piangere.

La conoscenza dell’iter della Geisha non si compie senza sofferenza, propria o altrui. Nel momento in cui la Ragazza Uccello recita il suo monologo d’amore, la Geisha si china sul Ragazzo Cane, lo abbraccia, gli sussurra all’orecchio le stesse parole in differita, gli gattona intorno, lo guarda di sottecchi, lo seduce.Con un sottofondo noise i due accennano simbolicamente un rapporto sessuale, e nel frattempo la Ragazza Uccello balla con violenza sul proscenio. La sua ombra scomposta si proietta sul connubio dei due amanti.

Dopo l’atto la Geisha piange a dirotto, e viene spogliata dei suoi attributi erotici dalle Ballerine, che le tolgono le scarpe punitive, la parrucca, e le mutandine al ginocchio. Dopodichè si pone sul limitare di una scatola a forma di bara, illuminata da dentro, come ad alludere ad un’ulteriore metamorfosi a venire.Foto_Rolando_Paolo_GUerzoni6


Io è un altro

Rispetto alla prima parte della trilogia, il corpo messo in scena in Canto di Ferro non è più contenitore irrelato di terremoti o abissi emotivi, ma si presenta proiettato verso l’esterno. È un corpo relazionale, vettore delle interazioni con l’alterità, che intreccia legami, di amicizia, sodalizio, amore, dipendenza, dominanza, piacere. Un corpo che può essere brutto o splendente, che può elevarsi, danzare o strisciare. Ma che non può isolarsi.

La contrapposizione fra le varie identità in scena passa attraverso le modalità della guerra e dell’amore, che spesso la drammaturga concepisce come profondamente intrecciate.

Se l’identità, a un livello superficiale, è concepita come un’istanza immutabile, di natura ontologica, nella realtà esperienziale si compone e si scompone continuamente, a seconda delle interazioni con l’altro da sé. L’alterità può configurarsi come opposta o speculare. Nel finale vediamo le due ballerine che si fronteggiano identiche, il Ragazzo Cane di fronte alla Ricamatrice, uguale e contrario, stesso sesso, stessa altezza, uno dipinto di bianco, l’altro di nero. La nuova Geisha ha capelli cortissimi come la Ragazza Uccello, e tiene le braccia nella stessa posizione, alte, con la testa fra le mani. Una di loro è nera e minuta, l’altra bianchissima e alta.

Valdoca, Paesaggio con Fratello Rotto, Canto di ferro, Gheisha

Io/altro, identico/contrapposto, differenza/ripetizione costituiscono il labirinto di specchi e ombre in cui , attraverso le declinazioni dualistiche, i personaggi sulla scena di Canto di Ferro cercano, fondendosi uno nell’altro, di trovare la propria unità.


III A CHI ESITA

Appendix Explicatio Fecundae Tabulae

I fratelli siamesi contestano la nostra individualità e

insieme quella distinzione tra io e l’altro

da cui la nostra individualità dipende;

in altre parole non l’unicità del nostro corpo,

ma della nostra coscienza.

Leslie Fielder, Freaks, miti e immagini dell’io segreto.

 


L’incorporazioneFoto_Rolando_Paolo_Guerzoni4

L’ultima parte di Paesaggio con fratello rotto possiede la fissità di un epifania.La scena è immobile, e la creatura che vi compare rimane ferma, limitandosi a parlare. Come se fosse una visione che viene a visitarci, sospende lo scorrere del tempo per lasciarci il ricordo di un messaggio. Il messaggio è lungo e articolato, ma la visione del messaggero potrebbe benissimo essere circoscritta ad un istante.

Le due polarità oppositive di mente/corpo, ignoranza/conoscenza, violenza/pietà, amore/odio, incarnate in Fango che diventa Luce dall’Oracolo e dal Macellaio mediante le modalità di un amore irrealizzabile che sfocia nell’assassinio e nella morte, si fondono in A chi esita attraverso il corpo degli stessi attori, che diventa uno. Il sipario si apre e compare una creatura straordinaria, dalle caratteristiche che richiamano la parola greca deinòs, terribile, immane, sovrumano, divino.

Vediamo due gemelli siamesi, maschio e femmina, uniti dal torace, statici come una divinità sull’altare. Portano due coturni ai piedi esterni, lignei e altissimi, che danno al loro corpo la postura di chi ascende un gradino, la stessa del Cristo Risorto di Piero della Francesca. Alle unghie delle mani portano delle protesi di metallo lunghe ed arcuate, in uso fra l’antica nobiltà cinese. Sono unghie per mani che non conoscono il lavoro, e che non hanno bisogno di sperimentare il mondo, di toccarlo per conoscerlo, perché già lo sanno perfettamente. Le protesi metalliche allungano le unghie conferendo loro un aspetto leggiadro e ferale. Potrebbero essere le mani di un asceta, o quelle di un imperatore. Le mani di un santo e nello stesso tempo gli artigli di una belva.

I Siamesi si manifestano per riferirci l’ultima visione del Paesaggio, dopo quelle riferite dall’Oracolo e dalla Geisha. Letteralmente, i Siamesi ci riferiscono quello che vedono, quello che tutti possiamo vedere attraverso il totem televisivo, e più in generale attraverso i media. Le «impressionate immagini» sono le fotografie, i media audiovisivi, che basano il loro statuto sull’esistenza sul piano della realtà di ciò che rappresentano e che danno una visione del mondo che aspira alla totalità.

«Tutto io vedo da qui», dicono i Siamesi. «Schiantate ragazze rovinate, corpi – esplosi, pezzi di carne bruciata, ginocchia nel fango che supplicano – per un figlio, per un padre – dita secchissime si tendono – verso un cibo, e segnature – di polsi legati, vedo – il ragazzo rinchiuso – chiama una madre che lo ha venduto.»

I Siamesi vedono la guerra, la carestia, e la morte. Vedono sfruttamento e violenza nei confronti delle donne, lo strazio dei corpi, il loro smembramento in un fondale di guerra. Vedono come la guerra distrugga non solo i singoli corpi, ma anche i legami che questi corpi avevano, gettando i parenti e le famiglie nella disperazione e nel dolore. Vedono corpi corrosi dalla fame, i segni della cattività, della tortura, del sequestro. E di una mercificazione totale, che corrompe tutto, anche i legami di sangue, il vincolo di protezione e cura che dovrebbe legare tutti i mammiferi alla loro prole.

I Siamesi vedono come l’Occidente osservi l’apocalisse in differita, attraverso il filtro protettivo dei mediatori, primo fra tutti lo schermo. Il caos è precluso dallo scenario occidentale, pacifico ed opulento. La violenza dell’Occidente è cannibale ed implosiva, profonda come il suo stesso nocciolo. Il suo male genera uno panorama di rovine psichiche, di uomini folli, di odi nascosti, di divisioni, di sentimenti inammissibili che portano alla pazzia, in cui la repressione si coniuga con lo spreco, e la commercializzazione del dolore con le droghe istituzionali.

«Ah! Mondo mio – ti vedo nel tuo strazio d’ossa – nella fatica di chi non ce la fa – della madre che odia i suoi bambini – nevrotici, del pane buttato sotto la tavola – gente che non piange – teste crollate – solitudini analizzate su un lettino – e gocce in soccorso»

La connessione fra l’orrore del Primo Mondo e l’orrore degli altri mondi a scalare sta nella violenza contro i bambini, emblema di un’innocenza inerme e perfetta per andare in contro al sacrificio. I bambini sono intimamente connessi con gli adulti, sono i loro figli, rappresentano una parte dell’io profonda, migliorata, purificata. Un male estremo li sottopone alla molestia e all’abuso, fino ad arrivare all’assassinio, e ad una reificazione totale e senza nome.

«Vedo il raggrinzito cuore dell’infanzia – ossicino buttato sopra a un letto – agnello torturato dal lupo sessuale – bambini, divinità nostre, le sole – che ancora abbiamo, ossicini nostri – rovinati. Vedo impazzire – l’agnello fra le grinfie del lupo – vedo i suoi visceri venduti sui banchi di un buio mercato

Corpses of Siamese twins, Everard Crijnsz. van der Maes, 1630, The Hague Historical Museum


Speculum

I Siamesi ricevono la visione del mondo e ce la restituiscono trasformata in parola, con un processo di rifrazione. Dopo di ciò il freak divino si interroga sulla propria natura, e parlando di sé parla di noi.

«Ma io? Io? Io? Io – io sono – due volte io – questo infelice corpo doppio – la mia disgrazia – è il mio ornamento. Ora – da qui io vedo più chiaramente – da questo picco estremo deforme.»

Il doppio non si configura più come oppositivo, ma integrato, trovando albergo in una creatura contraddittoria, infelice, fuori dalla grazia, ma orgogliosa della sua deformità. È grazie alla loro malformazione, alla loro anomalia, alla loro diversità che i Siamesi hanno il dono della visione, come l’Oracolo per il suo essere donna, e la Geisha per la sua natura mutante ed eccessiva. L’insistenza sul tema della duplicazione, oltre ad avere un sostrato relativo alla decostruzione metafisica delle coppie della logica binaria, allude anche al doppio sottinteso in ogni rappresentazione artistica. I Siamesi sono metafora della pratica dell’arte, di quel suo guardare il mondo e rifletterlo mediante una creazione irreale che può essere anche la messa in discorso, e di quel suo frequente e quasi obbligato passaggio attraverso il malessere, l’inquietudine, l’alienazione.

La frattura duale del primo atto, con i personaggi polarizzati del Macellaio e dell’Oracolo, che incarnavano rispettivamente Male e Bene, Maschio e Femmina, Impulso e Razionalità, oltre che tutte le opposizioni duali che abbiamo precedentemente menzionato, passa attraverso l’incontro/scontro di Canto di Ferro, e viene infine superata in un’unione incorrotta nel corpo di una divinità deforme. I Siamesi continuano a vedere un mondo fratturato, unito solo nell’orrore, ma superano la lacerazione interna proclamando che la natura doppia dell’uomo nasconde, dietro al dolore, una possibilità di trascendenza del dolore stesso. La tradizione culturale ci ha insegnato a temere il doppio, a considerarlo un presagio di morte quando si tratta di un’apparizione, un segno di degenerazione evoluzionista se connesso al corpo, o un sintomo di follia schizoide se riscontrato a livello psichico. La Gualtieri rompe con questa tradizione antichissima e proclama che l’altro io dentro di noi non è una manifestazione patologica, né una possessione fantastica, né un intruso da rimuovere, ma è il nostro io più autentico. L’alterità viene inglobata, e viene fatta coincidere con l’identità più profonda e più vera. È l’altro desiderato, l’altro che vorremmo essere, ciò che nel profondo siamo.

«C’è in me qualcosa – più vecchio di me – c’è in me qualcosa senza guscio – né ossa, più vecchio di me – c’è in me un me che se ne stava tranquillo – e guardava la mia carne uscire dalla madre – la mia voce scassare la camera in attesa – (…) c’è qualcosa in me – più vecchio di me – intravisto nell’attimo – della rovina, ai bordi – del mio sbando, proprio sull’orlo – e nella gioia piena – (…) Di notte mi chiama – nell’ora spaventosa del buio – mi chiama ora – s’insinua nel presente – forte chiama – forte e paziente – perché il tempo è il suo gioco – e quando vuole lo smette – fuori dal nome chiama – e dalla forma – che al nome risponde – e la bellezza non è che – l’ombra della sua luce (…)»

 Sulla scena di A chi esita trova spazio una rappresentazione della divinità, che riunisce in sé gli opposti e si compone visivamente in una Trimurti, integrando alle spalle dei Siamesi la Ricamatrice. Le due Ballerine, emblemi dell’infanzia e dell’innocenza, dormono ai loro piedi. E al loro fianco si vede un personaggio di spalle, l’ignoto, l’ambiguo, il nascosto, il male possibile. Ma, soprattutto, ciò che è e ciò che rimane indicibile.

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Conclusioni

La trilogia di Paesaggio con fratello rotto mette simbolicamente in scena la rappresentazione di un rito di passaggio, tripartita secondo la strutturazione di questi riti individuata da Van Gennep. La prima parte mostra la separazione, in tutte le sue accezioni, l’uomo separato da se stesso, l’uomo scisso in tutte le sue facoltà, l’uomo isolato dall’altro da sé, l’uomo polarizzato, e poi la discordia, la divisione, la morte. Canto di ferro ha tutte le caratteristiche caotiche ed anomiche della fase di transizione, in cui avviene il confronto e lo scontro fra ciò che nelle prima fase risultava separato. Nell’ultima parte della performance rituale avviene l’incorporazione, di ciò che nella prima fase del rito risultava scisso e contrapposto.

Nell’analisi del testo teatrale emergono fortemente spunti speculativi connessi alle linee direttrici degli studi culturali, in primo luogo per quanto riguarda le teoriche della corporeità e della performance, ma anche gli studi di genere e quelli sulla relazione dinamica fra identità e differenza.


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Pubblicato su PAROL numero 20, 2010/2011

 

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