Andrea Chiesi è uno dei maestri della pittura paesaggistica di questa prima decade del millennio. Il suo soggetto di elezione è (stata) l’archeologia industriale, emblema del passaggio dalla modernità a ciò che è venuto dopo. La sua pittura è già materia di tesi di laurea. Vincitore del Premio Terna, Chiesi espone il suo ultimo ciclo pittorico Elogio dell’Ombra alla Otto Gallery di Bologna, fino al 30 maggio.
La tua ricerca sul soggetto industriale parte nel 2000, con la serie G.R.U.
“Più o meno sì. In realtà nel ’98 ho fatto una mostra assieme a Giovanni Lindo Ferretti, L’Apocalisse di Giovanni, e lì già la struttura industriale c’era. Era realizzata con una tecnica diversa, non olio su tela, ma inchiostro su carta. Il ciclo G.R.U. è il primo in cui le strutture sono state dipinte.”
Invece Touch me, la tua prima serie, è incentrata sulla figura umana. Come mai poi hai abbandonato questa strada?
“Non l’ho abbandonata del tutto, in realtà continuo a disegnare delle figure ma in una dimensione di taccuino, quasi con una funzione privata. È da molto tempo che non le espongo, e non escludo di esporle prima o poi. Sono due campi completamente diversi, come due fiumi paralleli, uno più grosso e uno più sottile.”
L’ultimo lavoro sulle strutture industriali è stato Kali Yuga.
“Quello è stato il più industriale di tutti, perché il soggetto era l’ex-acciaieria di Cornigliano a Genova, che ho fotografato poco prima dell’abbattimento, e che ora non esiste più. Uno di quei luoghi che hanno segnato la memoria del percorso industriale di tutto il Novecento, dalla nascita dell’industria pesante fino al suo declino, che ha coinciso con la sua delocalizzazione rispetto all’Europa Occidentale, e la sua ricollocazione in Cina.
Ho dedicato anni alla ricerca su questi luoghi, quel che dovevo dire l’ho detto, e quindi mi sono mosso in altre direzioni. Nella mia ultima mostra ho messo a fuoco spazi molto diversi, anche anonimi, semplici: c’è un salotto, un corridoio, una biblioteca.”
Quindi non sono più fabbriche.
“Quella del luogo per forza abbandonato non è più una regola da seguire. Uno dei soggetti è l’Archivio di Stato di Modena, un altro luogo legato alla memoria. In realtà quello che mi interessa è il luogo che trattiene un mistero, una memoria, o qualcosa di chi vi ha vissuto, e lo può restituire in maniera sussurrata. Il titolo della mostra è una citazione di una poesia di Borges, Elogio dell’Ombra. C’è infatti uno studio sulla luce, sull’ombra, e sulla penombra, che accarezza le superfici e crea delle zone misteriose. C’è il contrasto fra la luce e l’ombra. E poi c’è il mistero, che rimane nella penombra.”
Pubblicato il 30 marzo 2009 su L’Informazione Download pdf