TOTAL BLACK II __Storia sociale del colore nero__ Età Moderna e Contemporaneità


[Trovate la prima parte di Total Black, dall’Antichità al Medioevo, nell’articolo precedente.]


Amo il nero, Direttore. È il colore della notte che è interruzione ed è attesa, il colore dell’abnegazione e del diniego, privo di sfumature e di declinazioni; la radice greca che lo partorisce, melas, è la stessa che dà origine a malinconia; il nero abbigliava i domestici e i bambini avviati all’istruzione di massa: è il colore del non-io, dell’invisibilità, dell’assenza. Dell’eterno, Direttore: nero in lingua hindi è kala, che significa anche il tempo, tutto il tempo. È il colore dei dubbi e di ciò che sfugge: l’ombra è corvina. È il colore della fine: la conclusione della scala cromatica.”

Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue


NERO MODERNO

Alla fine del Medioevo il nero va incontro ad un intenso processo di valorizzazione, che lo fa diventare “un colore alla moda”. Questa rivalutazione nasce sia a livello simbolico che tecnico, come sfida alla perizia dei mastri tintori, perché il nero intenso è stato per molto tempo un colore impossibile da ottenere in ambito tessile. Le corporazioni delle drapperie sono regolamentate da norme severe, che impediscono ad esempio di lavorare con diversi tessuti, oppure di tingere in due colori diversi. Chi tinge di rosso non può tingere di blu, e chi tinge la lana non può tingere il lino. A volte la specializzazione è ancora più radicale, e in città come Lucca, Venezia ed Erfurt i tintori si distinguono in base alla sostanza utilizzata, che sia garanza, chermes o guado. A Norimberga si distinguono i tintori ordinari dai tintori di lusso. Ma il nero costituisce un problema a parte, perché fino alla metà del Quattordicesimo Secolo nessuno è in grado di ottenere neri profondi e brillanti, ma sempre e solo sfumature di bluastro, bruno o grigio. I materiali utilizzati per le tinture nere sono cortecce, radici o frutti di ontano, quercia, castagno o noce, da mordenzare con ossidi di ferro e da utilizzare per più bagni, in modo da ottenere colorazioni più pure e stabili. Il noce è quello che fornisce risultati migliori, con la pecca di avere radici tossiche per il bestiame e di essere associato a superstizioni malefiche. Spesso si dà alla stoffa una base, ovvero un piede, e il piede del nero è il blu, perché solo chi tinge di blu può tingere anche di nero. Ci sono molti tintori fraudolenti che uniformano la tinta alla fine del procedimento usando nero di carbone o nero fumo, tinte effimere che si dissolvono dopo poco tempo, usate anche per trasformare pellicce di coniglio in sontuosi e costosi zibellini. A prova di questo, ci sono giunti molti documenti di denunce e diatribe legali di clienti insoddisfatti dai loro capi neri, soprattutto fra il XIII e il XVII secolo.  L’unica tinta nera duratura è data dalla noce di galla, un’escrescenza parassitaria che si forma sopra le foglie di quercia. È un prodotto molto prezioso, perché occorrono innumerevoli noci di galla per tingere pochi metri di stoffa. Inoltre le querce europee ne producono di qualità scadente, e il prodotto va importato dall’Africa settentrionale, dal Medio Oriente e dall’Europa orientale. I tintori a poco a poco scoprono che per ottenere un nero brillante sono necessari la base di guado, ovvero il piede di blu, le noci di galla, i derivati dell’albero del noce e la mordenzatura di ferro.

I primi neri perfetti si ottengono in Italia, poi in Germania, e infine in tutta Europa.

La moda del nero diventa un dato di fatto fra il 1360 e il 1380, e rimane sulla cresta dell’onda fino alla metà del XVII secolo. I progressi tecnici dei tintori vanno di pari passo con la rivalutazione simbolica e la richiesta di stoffe nere da parte di determinate classi sociali. I giuristi e i magistrati trovano il nero austero e dignitoso, e i professori lo scelgono per le loro lunghe pellande o cioppe. Il nero inizia a piacere a tutte le categorie di togati, ma anche e soprattutto agli strati più ricchi della borghesia, che in base alle leggi suntuarie non possono vestirsi con gli scarlatti veneziani e i blu pavonacei di Firenze, riservati all’aristocrazia.

Sono questi borghesi facoltosi che richiedono neri sempre più brillanti, per superare le pellicce di zibellino dei principi, a loro interdette per legge. Nella seconda metà del Trecento anche coloro che si occupano di finanza, come i banchieri e i mercanti, iniziano a vestirsi di questo colore. La Morte Nera della metà del XIV secolo fornisce uno spunto morale per l’austerità del nero. La policromia, gli scacchi, le righe, diventano a poco a poco indegni di un buon cristiano, a meno che non sia un giovane o una donna, preferibilmente di facili costumi. Si usano marchi cromatici (variabili a seconda di tempo e luogo) per contraddistinguere categorie sociali abbiette, come i lebbrosi (bianco), i boia e le prostitute (rosso), i bestemmiatori, gli ebrei, i rei di falsa testimonianza, gli eretici (giallo), i giocolieri, i folli, i musicisti (verde). I giovani eleganti invece si fanno tutti ritrarre con i loro abiti neri, e i più fortunati e ricchi fanno eternare le loro fattezze da Parmigianino, Raffaello, Bronzino, Lorenzo Lotto, Gian Battista Moroni.

Anche i principi si convertirono al nero.

I primi sono gli italiani della fine del XIV secolo, il duca di Milano, il conte di Savoia, i signori di Mantova, Ferrara, Urbino, Rimini.

Valentina Visconti lo esporta in Francia, sposando Luigi d’Orléans, che inizia a sfoggiarlo durante il periodo di follia del fratello Carlo VI.

Riccardo II di Inghilterra è genero di Carlo VI, e anche la sua corte si veste di nero. Imitando le corti francesi e inglesi, la moda si diffonde anche in Scandinavia, Polonia e Ungheria.

Filippo il Buono, duca di Borgogna dal 1419 al 1467, è il sovrano che per primo adotta sistematicamente questo colore per i suoi paludamenti. Lo adotta come segno di lutto per la morte del padre Giovanni Senzapaura, ucciso dagli Armagnac proprio nel 1419, e non se ne separa più. Carlo il Temerario, figlio di Filippo il Buono, prosegue la tradizione. A metà Cinquecento un’altra donna consacra l’uso del nero funebre presso la corona di Francia, la raffinata arbitra d’eleganza Caterina de’ Medici.

È così che nasce il periodo del nero curiale, ovvero del nero di corte. Diventa poi nero imperiale presso gli Asburgo d’Austria e di Spagna, eredi dei duchi di Borgogna tramite Maria, figlia di Carlo il Temerario, che porta il nero in dote a Massimiliano d’Asburgo, assieme alla rigida etichetta che diventerà un codice imprescindibile presso la corte spagnola, e verrà imitata in tutta Europa a partire dagli anni Venti del Cinquecento. L’imperatore Carlo V ama moltissimo il nero, come rivelano molti dei suoi ritratti, e Filippo II lo ostenterà quando la Spagna avrà raggiunto l’apogeo della sua potenza. Michel Pastoureau afferma che “in Spagna il secolo d’oro è un grande secolo nero.

Con la Riforma protestante il nero diventa un colore moralizzante, e la cromoclastia è da applicarsi soprattutto al tempio, un po’ come ai tempi di San Bernardo da Chiaravalle. Lutero odia in particolare il rosso, che ammanta la chiesa di Roma come la grande meretrice babilonese. Si dichiara guerra alla vanità. La cromofobia dei protestanti si rispecchia anche nell’uso dei colori che fanno i loro pittori, istruiti in particolar modo da Calvino, che dedica molte energie alla trattazione sull’arte. Rembrandt predilige l’utilizzo di pochi colori tendenti alla monocromia, focalizzandosi su una ricerca di spiritualità ed intensità. Anche per quello che riguarda l’abbigliamento i protestanti e le chiese riformate vanno nella direzione del nero. L’abito è un ricordo della Caduta, quando i progenitori dopo il peccato originale si resero conto della propria nudità, ne provarono vergogna, e si coprirono con una foglia di fico. Quindi l’abito deve essere semplice, sobrio, funzionale al lavoro. Alcuni ritratti di Katharina von Bora, moglie di Lutero, la mostrano con mantelli conici neri che ricordano il niqab in uso in Arabia Saudita. Truccarsi e adornarsi è considerato un’oscenità.  Non esistono abiti rossi, gialli, verdi, rosa, e neppure viola. Il blu è tollerato se ha toni discreti. I colori accettati sono in primis il nero, il grigio, il bruno e il bianco per donne e bambini. I padri pellegrini esportano queste usanze cromatiche in America. Tutti gli uomini si vestono di nero in Scandinavia, nelle Province Unite, e nell’Inghilterra puritana della dittatura di Oliver Cromwell. Anche i cattolici controriformati si vestono di nero, pur abbinandolo ai gioielli incredibili provenienti dalla razzia d’oro nel Nuovo Mondo. Soprattutto a corte, gli abiti sono delle rigide armature punitive: ostacolano qualsiasi movimento che non sia lento e solenne, e impediscono la vista del proprio corpo peccaminoso, preclusa da enormi ruote di pizzo bianco, le gorgiere. Da allora gli uomini, a parte la parentesi settecentesca, non hanno mai abbandonato gli abiti di colore scuro.

Il Seicento non è solo il siglo de oro dei fasti barocchi e delle estasi mistiche, ma è anche un periodo oscuro di disgrazie, guerre, pestilenze, conflitti religiosi e caccia alle streghe. Ovunque dilagano intolleranza, dispotismo, miseria, criminalità e violenza. Le case si incupiscono, sia a livello di ambienti che di mobilio. Le case dei poveri si allineano al gusto del nero essendo più che mai buie e sporche.

L’ombra domina le opere pittoriche di Caravaggio e dei suoi successori, Bartolomeo Manfredi, Giovanni Serodine, Gerrit Van Honthorst, lo Spagnoletto, Georges de La Tour. La morte regna ovunque, il memento mori diventa un topos culturale, e a livello sociale iniziano le prime forme di lutto espresso in segni vestimentari praticate anche dalla borghesia, mentre fino a quel momento erano state un lusso esclusivo dell’aristocrazia.

Era stata Anna di Bretagna, moglie di Carlo VIII e Luigi XII, a introdurre il nero luttuoso alla corte di Francia, il cui cerimoniale prevedeva fino alla fine del Medioevo il bianco per le regine e il viola per i re. La massificazione vera e propria del lutto in nero avverrà solo nel Diciannovesimo Secolo, in cui il codice comportamentale vittoriano esige una complessa etichetta funebre, con splendidi abiti e accessori ad hoc, ombrelli, ventagli, pettini, borsette, forcine, lacrimatoi cesellati, che devono essere indossati per mesi, spesso per anni a seconda del grado di parentela. Le donne a lutto hanno l’obbligo di portare il velo per un anno, assieme alla gioielleria funeraria, e tutto quanto deve essere di colore nero. Si realizzano ghirlande nere da appendere fuori dalle abitazioni, corone floreali intrecciate con i capelli del defunto, nonché fotografie post-mortem dei cari estinti in posa come se fossero vivi.

Ma torniamo all’epoca delle gorgiere. Fra il 1550 e il 1660 avviene un’esplosione esponenziale di casi di stregoneria. Ad essi si affiancano i best-seller editoriali di manuali per riconoscere l’operato del demonio attraverso l’attività delle streghe, come la ristampa del Malleus Maleficarum, oppure De la démonomanie des sorciers. Quest’ultimo è opera di Jean Bodin, filosofo, spirito illuminato e propugnatore della tolleranza religiosa, che in questo caso si diletta a descrivere le forze maligne, i maghi, le streghe e le quindici categorie di criminali a loro connesse, individui che praticano l’antropofagia, il sacrificio rituale di infanti e la fornicazione col demonio. Bodin raccomanda la massima severità, l’applicazione della tortura e della pena capitale. In questa New Wave stregonesca, successiva alla prima ondata che fu a cavallo del XVI secolo, i principali indiziati non sono più gli eretici, quanto le donne, più propense ad avere rapporti sessuali con il diavolo.

Il sabba viene sdoganato nell’accezione corrente all’inizio del XVII secolo. Si svolge di notte, al buio, e i partecipanti vi vanno ricoperti di fuliggine perché sono passati attraverso i camini a cavallo delle loro scope. Sono nerovestiti e intenzionati a celebrare la messa nera, durante la quale compare un animale immondo rigorosamente nero, che sia gallo, gatto, capro, cane, orso, cervo, lupo. Le ostie profanate diventano nere assieme al sangue dei bambini sacrificati. Dopo il sacrificio e la profanazione si pratica la magia nera per poter nuocere a tutti i buoni cristiani che abitano nelle vicinanze.

Gli inquisitori, nei loro paramenti teatrali, nelle celle fetide, nelle perversioni logiche e nelle sale di tortura, ostentano un nero ancora più fosco, profondamente spirituale. Anche i giudici e il boia, fino a quel momento vestiti di rosso secondo una tradizione centenaria, diventano neri.

Parallelamente a tutto questo orrore superstizioso non può che svilupparsi la scienza, che all’epoca è una pratica rivoluzionaria. Dopo una serie di ricerche e di studi sulla natura del colore, nel 1666 Isaac Newton scopre lo spettro cromatico. La sequenza dei colori è sempre la stessa, il bianco della luce è dato dalla mescolanza di sette colori, che il prisma separa e fa disperdere. Scoprendo lo spettro, Newton estromette il bianco e il nero dalla categoria dei colori. Il nero rimane fuori dal sistema cromatico ancora più del bianco. Questa scoperta costituisce una svolta epocale nella percezione comune dei colori.  Nel XVII secolo il colore, una volta compreso ed eviscerato dal punto di vista scientifico, perde molta di quella misteriosa pericolosità che aveva fino a quel momento dato pensiero agli uomini pii, preoccupati della moralità dei loro simili.

E quindi il secolo successivo, il Settecento, chiuso fra le parentesi nere del XVII e del XIX secolo, è pieno di colori, di accostamenti sperimentali, acidi ed arditi. L’epicentro è in Francia, dove i colori di moda cambiano a velocità stupefacente. Dominano tutti i colori pastello, c’è molto rosa, azzurro, giallo, grigio. Inizia la grande moda del blu. Il nero scompare sia dai vestiti che dall’arredamento, se non nei paesi iper-protestanti. Ovunque dominano le tonalità luminose del Rococò, nei vestiti, nelle tappezzerie, nei mobili. Il nero torna solo con il Terzo Stato e la Rivoluzione Francese, sposandosi poi col rosso del sangue versato a fiumi da Madame Guillotine.


NERO CONTEMPORANEO

Nel frattempo, l’ondata romantica consacra il ritorno del nero abissale. Il gusto gotico si nota appena nella prima generazione del Romanticismo, la quale, basando la propria poetica sulla fascinazione della natura e del sogno, adotta come colori prediletti il verde e il blu. I romantici cambiano la percezione della natura in senso contemporaneo. Fino ad allora, la natura era stata la summa dei quattro elementi, mentre dal ventennio compreso fra il 1760 e il 1780 si identifica per la prima volta con la vegetazione. Nasce la moda delle passeggiate e delle giacche blu, come quella del giovane Werther.

Le tre generazioni romantiche successive alla prima hanno immaginari decisamente meno idilliaci. Il sogno di bellezza viene deluso, e nasce una nidiata di eroi febbricitanti votati alla distruzione. Si rinvigorisce il gusto del macabro grazie al romanzo gotico, di cui Horace Walpole è apripista con il suo Castello di Otranto del 1764. Satana diventa protagonista con il Faust di Goethe, e poi con Hoffmann, Téophile Gautier, Lord Byron, Baudelaire.

Il must per il poeta è essere malinconico come Leopardi, morire giovane come Keats, interessarsi di esoterismo e spiritismo come Edgar Allan Poe, amare l’oscurità, come attestano gli Inni alla notte di Novalis, Le Notti di Musset, e I Notturni di Chopin. Pur utilizzando molti colori brillanti, i Preraffaeliti hanno il culto del nero. In A Rebours il proto-decadentista Des Esseintes partecipa a una cena dark con portate tutte nere, composta da “brodo di tartaruga, pane di segala russa, olive di Turchia, caviale, bottarga di muggini, pasticci affumicati di Francoforte, selvaggina in salse color liquirizia, creme di tartufi, creme ambrate al cioccolato, sformati all’inglese, prugne, conserve di uva, more, ciliegie nere.” Si accentua il culto di Shakespeare e di Amleto, che viene interpretato anche dalla divina Sarah Bernhardt.

Nell’Ottocento il nero diventa anche il colore più familiare alle classi povere industrializzate, che passano tutta la vita in fabbrica. Il carbone è cuore di questo mondo nuovo, assieme al bitume e successivamente al petrolio. È l’epoca della Londra invasa dalla fuliggine di Charles Dickens. Ma le tute degli operai sono grigie o blu, perché il nero come pigmento tessile è ancora troppo costoso. Di nero si vestono invece i funzionari pubblici, gli impiegati negli uffici, i professori, i medici, i magistrati, i notai, gli avvocati, i poliziotti (almeno fino al Ventesimo secolo), i personaggi del mondo della finanza, tutti coloro che hanno a che fare con potere e sapere.

Ogni cosa che abbia a che fare con la circolazione del denaro e delle merci diventa nera, e l’etica protestante del lavoro trova il suo coronamento nel capitalismo. Sono neri anche gli oggetti industriali, le macchine, gli elettrodomestici, i telefoni, le macchine da scrivere, le penne stilografiche. Henry Ford è molto attento alla moralità e, nonostante le richieste del mercato, per molto tempo produce solo automobili nere.

Non sorprende che a cavallo fra Ottocento e Novecento ci sia una reazione degli artisti contro il nero. Oscar Wilde lo odia, amando al contrario il rosso e il viola. I pittori impressionisti dipingono all’aria aperta e la luce lascia pochissimo spazio al nero. Anche il puntinismo rigetta il nero, essendo fuori dalle leggi del contrasto dei colori propriamente detti dello spettro cromatico. Gauguin sostiene che nulla esiste che sia davvero di colore nero. All’epoca in commercio per i pittori continuano ad essere disponibili i tradizionali neri: nero fumo, di carbone, d’osso e d’avorio, che vengono affiancati da un pigmento sintetico, il nero di anilina. I pittori però li abbandonano, per mescolanze di colori che abbiano come risultato neri ricchi di sfumature. Nel frattempo ha fatto anche la sua comparsa la fotografia, medium che più di ogni altro contribuisce a rappresentare l’attualità e a modellare la sensibilità comune in visioni in bianco e nero. Nonostante la maggiore aderenza alla percezione umana della fotografia a colori, per molto tempo essa viene considerata frivola e poco obiettiva, e pertanto, fino a poco tempo fa, le fototessere dei documenti d’identità dovevano essere in bianco e nero. Per quanto possa sembrare incredibile, solo alla fine del Ventesimo Secolo si sono intrapresi studi di storia del colore nel campo della storia dell’arte.

Il cinema a lungo soggiace alla tirannia del bianco e nero, per quanto fin dal 1915 sarebbe già stato tecnicamente possibile realizzare pellicole a colori. Le ragioni sono sia economiche che moralistiche. I capitalisti puritani considerano le immagini a colori indecenti ed oscene, e sono loro a controllare ogni tipo di business, dal cinema alla produzione di automobili. Quindi, fino a metà degli anni Trenta, il cinema rimane un universo in cui tutto, dai costumi al trucco fino ad arrivare alle scenografie, è concepito per una resa in bianco e nero. I colori vi compaiono molto sporadicamente, mediante l’applicazione del pigmento direttamente sui fotogrammi, o tramite immersione in bagni colorati “blu per la notte, verde per gli esterni, rosso per il pericolo, giallo per la gioia”. Nonostante questo, varie avanguardie cinematografiche, cinematografiche, come gli Impressionisti francesi, gli Espressionisti tedeschi, i Kinoki di Dziga Vertov, riescono ad utilizzare il bianco e nero in modo liberatorio, erotico, eversivo ed anti-totalitario. Il primo film a colori, Becky Sharp di Robert Mamoulian, esce nel 1935. Il grande pubblico fa una virata di gusto così impetuosa che ora i vecchi classici in bianco e nero, per poter essere passati alla televisione, spesso vengono colorati artificialmente, suscitando dibattiti sulla liceità artistica e poetica di queste operazioni. Adesso girare un film in bianco e nero argenteo è più costoso che girare a colori.

Prima della Grande Guerra sono gli stilisti a riproporre la moda del nero, come il maestro della Belle Époque Jacques Doucet, oppure Paul Poiret, l’inventore dello stile Decò, che utilizza il nero come sfondo per vesti dalle linee morbide ed esotiche con motivi ispirati all’arte cinese ed alle grafiche giapponesi. Sulle orme di questi stilisti, Marcel Proust veste di nero Odette de Crécy in Dalla parte di Swann. Nel 1926 Coco Chanel crea il suo intramontabile tubino nero, ed abiti da sera dello stesso colore. Incurante del fatto che all’epoca il nero puro era ancora gravato dalla pesante eredità funeraria dei vittoriani, Coco lo considera di una bellezza e di un’armonia assoluta, paragonabile solo a quella del bianco. Trent’anni dopo, lo stesso tubino di Chanel verrà rivisitato da Hubert de Givenchy per il costume indossato da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany. Negli anni Venti e Trenta il nero inizia ad essere ritenuto un colore moderno, anche da chi crede nella guerra come igiene del mondo. Nel Ventesimo Secolo il nero è stato associato spesso a forze totalitarie, dalle camicie nere degli squadristi di Benito Mussolini, fino alle uniformi Totenkopf delle SS naziste.

Il nero può essere anche indice di ribellione, fin dalla testa di moro su campo bianco utilizzata come bandiera dalle prime navi pirata del Quattordicesimo Secolo, trasformatasi poi nel corso del tempo nel Jolly Roger, il teschio con bandana e benda sull’occhio su campo nero. Il vessillo dei pirati diviene poi un drappo interamente nero nel Diciottesimo Secolo. La bandiera nera viene adottata dalla sinistra radicale sulle barricate parigine nel ’68, dalle fazioni più nichiliste ed individualiste degli anarchici e dagli ambigui black-bloc.

Neri sono i giubbotti di pelle dei greaser americani e dei rocker inglesi, degli Hell’s Angels, dei punk. Nero è il cuoio dei leather boy omosessuali e dei cultori del sesso BDSM, il giubbotto di Marlon Brando ne Il Selvaggio e quello di Fonzie in Happy Days. I goth degli anni Ottanta, detti dark in territorio italiano, ispirano la loro estetica alla necrolatria vittoriana, con trucchi cadaverici, pizzi e bustini neri, cappelli a cilindro da dressage e gonne a tournure.  I Crass, forse il gruppo più rilevante dell’intero movimento punk, si vestono sempre di nero, dalla testa ai piedi, come risposta all’omologazione nascosta nelle mille forme della moda, comprese quelle street-punk. I membri dei Crass curano grafiche meravigliose per le loro autoproduzioni. Questo bianco e nero sporco da fotocopia o ciclostile dà vita ad una nuova forma di editoria DIY, con centinaia di fanzine autoprodotte in Europa e America, come Raket (Rotterdam), Sunday Mirra (Uxbridge), London’s Burning (Londra), Musique mécanique (Pordenone) Teste Vuote Ossa Rotte (Como) a cui si ispira anche la nostra Unknown Pleasures.

Dopo i conflitti mondiali molti pittori, soprattutto astratti come Franz Kline, Ad Reinhardt, Frank Stella, fanno del nero la nota dominante della loro tavolozza, o comunque il punto focale di intere stagioni espressive. Pierre Soulages nel quinquennio compreso fra 1975 e 1980 fa sperimentazioni cromatiche per ottenere l’oltrenero, un nero al di là del nero, pieno di effetti luminosi e sfumature variopinte che cambiano a seconda dell’illuminazione, e a cui lo stilista John Rocha si è ispirato per una collezione.

A proposito di moda, Dolce & Gabbana alla fine degli anni Ottanta si impongono all’attenzione internazionale mediante lo stereotipo della siciliana in stile La Ragazza con la Pistola, circondata da vecchie nerovestite e uomini d’onore, con una campagna pubblicitaria in bianco e nero ispirata al Neorealismo italiano, che getta le basi del loro immaginario seguente, un tripudio di pizzi, rosari, negozi tradizionali da barbiere, pastorizia, fiaschi di vino e madonne. All’inizio degli anni Novanta Jean Paul Gaultier propone una collezione invernale ispirata all’alta sartoria tradizionale degli ebrei ortodossi in cui il nero predomina assieme al bianco, con meravigliosi cappotti lunghi da cabalisti, camicie magistralmente cucite, enormi cappelli di pelliccia a ruota o a colbacco, donne dal cranio rasato sotto kippot piene di spille da balia.

Nell’autunno 2009 Alexander McQueen propone Twisted Fantasy, con donne viste come visioni allucinatorie in bilico fra mostruosità e stile, pallide come cadaveri, con labbra rosse o nere truccate come quelle dei clown e una serie di attributi ridicoli, ombrelli a fare da cappelli, bigodini dimenticati in testa, nodi medusei di lana, fiocchi, chimoni caricaturali in plastica da spazzatura. Eppure, nonostante questa connotazione grottesca, queste donne sono altere, bellissime e terribili, in particolare Black Duck Feather, una creatura da incubo ricoperta di piume nere, Signora della Morte su coturni altissimi, con fianchi e attributi sessuali accentuati e bocca sbavata di rosso, i cui paludamenti si trovano ora al Metropolitan Museum of Art di New York. McQueen ha commentato questa collezione dicendo che è importante speculare sulla morte, in quanto parte fondamentale della vita.

Nella moda contemporanea il nero trionfa. Durante i rutilanti anni Ottanta, in cui dominano i colori violenti, i verdi bottiglia, i fucsia, i blu elettrici, Comme des Garçons propone una collezione interamente nera, la quale, perseguendo l’ideale di una bellezza che può anche fare paura, ha l’effetto di un terremoto. I neri che Rei Kawakubo espone nella sua prima sfilata sono differenti uno dall’altro per il tessuto utilizzato, dando alla monocromia un effetto tridimensionale. Yohji Yamamoto, definito il poeta del nero, utilizza questo colore in senso diverso da quello occidentale, nello stesso modo in cui era fruito dai ninja e dai samurai, come dispositivo di sparizione, come una corazza che conferisce forza. Anche Yamamoto nel 1981 propone una collezione nera. Gli operatori del settore rimangono stregati da questo colore e, dopo le sfilate di svolta di Yamamoto e Kawakubo, si presenteranno sempre agli eventi come un “immane muro nero”.

Poi abbiamo Ann Demeulemeester, sospesa fra minimalismo e poetica del lacerto, Gareth Pugh, sommo creatore di geometrie e volumetrie tessili, che ha dichiarato di pensare in nero, Rick Owens, con le sue creature in bilico fra il dandysmo, il rave tekno, la subcultura dei motociclisti e il cenobio claustrale di una nuova Età di Mezzo urbana, e Kokon To Zai, nuova griffe londinese che mette bianco su nero i sigilli dei grimori e altri simboli esoterici in salsa street-wear.

E a proposito di grimori, magia nera e black-humour, vogliamo finire citando una delle nostre ladies in black predilette, la stupenda Morticia Addams, mentre fornisce a Mercoledì le basi della sua educazione.


Bibliografia

Michel Pastoureau, NERO. Storia di un colore, Salani Ponte alle Grazie, 2008.

Eric de Chassey, Euro-punk. La cultura visiva punk in Europa [1976-1980], Drago Edizioni, 2011.

Giulia Mafai, Storia del costume dall’età romana al Settecento, Skira,2011.

A cura di Terry Jones, Yohji Yamamoto, Taschen,

Sanae Shimizu, Unlimited: Comme des Garçons, Dai Nippon Printing co, 2005.

Matteo Guarnaccia, Ribelli con stile. Un secolo di mode radicali, Shake edizioni, 2009.

Melissa Leventon, L’abbigliamento nel mondo. Storia, luoghi, culture. Logos, 2009.

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http://www.vogue.it/encyclo/stilisti/d/dolce-e-gabbana

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