WHITE THING ___ La mostra “Uscita d’Emergenza” di Monia Marchionni_


Io sono bianca, e sono altrove, dice Monia Marchionni.

Il bianco è il colore della luce, del Bianconiglio in arrivo dal Paese delle Meraviglie, dei libri dei conti segreti. L’aureola dei santi è bianca, e anche le secrezioni amorose. Bianca è la pagina vuota, la panna montata, la distanza siderale della Via Lattea. Bianco è il latte materno e il disco più controverso dei Beatles. L’incarnato delle principesse delle fiabe è bianco come la neve. Solamente il guscio superficiale del bianco significa purezza. Il suo livello intermedio esprime la totalità, la pienezza, la somma di tutti i colori dello spettro cromatico. Ma nel profondo il bianco rappresenta la mutazione, la metamorfosi, il cambiamento, il passaggio da uno stato all’altro. Per questo le spose si vestono di bianco, e il bianco è il colore associato al lutto e alla morte nell’Estremo Oriente.

Il bianco esprime una condizione liminare, aperta a possibilità infinite. Il limite oltre il quale si trova la vera natura delle cose.

Monia Marchionni innalza una colonna bianchissima al centro dello spazio. Alla sua base c’è un solido cubo bianco e smaltato, la cui durezza si disfa nella trama soffice del tessuto, trasformandosi in una pila di candide camicie. Questo indumento, nel sistema della semiologia della moda, indica eleganza, elite, ordine, omologazione, condizione terziaria irreggimentata. Dal top manager fino all’ultimo impiegato, la camicia è la divisa obbligatoria dei colletti bianchi, associandosi pertanto al lavoro e alla gerarchia. Durante lo sviluppo ascensionale della colonna, le camicie abbandonano gradualmente la loro forma, trasformandosi in tessuto ordinato e piegato, tessuto che poi cede all’entropia, scompaginandosi, ingarbugliandosi, intrecciandosi fino a diventare una fune. La fune rappresenta il vettore di tensione fra uno stato e l’altro. I due poli che connette sono il piano di realtà e la dimensione simbolica, il mondo, la società con le sue regole, i suoi doveri, la sua parvenza ordinata, e poi l’immaginario, la speculazione sul mondo, l’arte. Arte che solo apparentemente è caos, per il suo ammettere e decantare la coincidenza degli opposti. Monia Marchionni realizza una macchina alchemica duchampiana, un dispositivo magico di trasformazione, di creazione, di viaggio, che ci pone delle domande sul senso della pratica artistica e sulla sua importanza per decrittare la realtà che ci circonda. La fune, oltre che un’attrezzatura per la fuga e per la conquista di uno spazio altro, costituisce anche un vincolo, un legame, un imperativo categorico per chi decide di utilizzarla.

La pratica pittorica dell’artista si caratterizza come riflessione sul tempo, per quel suo scegliere una tecnica che arriva dal passato remoto, l’imprimitura, e per la lunghezza della lavorazione. La formula prescrive la realizzazione di un fondo, caldo e liquido, formato da strati di gesso di Bologna, che viene mescolato a colla di coniglio. Dopo aver ottenuto uno spessore di tre millimetri, bisogna carteggiarlo, inciderlo con la punta secca, trattarlo ai fini di isolarlo dagli agenti atmosferici. L’intervento sulla materia è capillare e profondo, e si coniuga alla ricorrenza formale del cerchio. Questa figura delinea una dimensione temporale alternativa alla retta di matrice giudaico-cristiana, tesa verso una serie di scopi che hanno come fine ultimo la morte.

Il cerchio ha un andamento infinito, rappresenta il cambiamento e la rinascita.

Il ciclo di opere pittoriche progetta una futura espansione nell’ambiente, in modo da configurarsi nel segno di un divenire fluido e senza soluzione di continuità.


Testo critico scritto per la mostra “Uscita d’emergenza“, inaugurazione 8 novembre 2008 presso Magazzini Criminali.



 

Torna in alto